“L’hai portata a vedere Ken Loach? È ovvio che non te l’abbia data.”
A quel tempo la logica di Andrea era semplice, se non primordiale. Le donne vanno fatte ridere per portarsele a letto. Questo era l’Andrea di allora, quello della prima metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ci sapeva fare e ne faceva ridere tante.
Non dovete giudicarlo male per certe idee un po’ sessiste; erano altri tempi ed era, principalmente, un altro Andrea. Un ragazzo inquieto alla continua ricerca di qualcosa, che ora penso proprio abbia trovato. E comunque, pensatela come vi pare. Io gli volevo bene allora, e gliene voglio ancora di più adesso.
Peraltro, Andrea si era sbagliato e come, se si era sbagliato!
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Oggi, trent’anni dopo, Rai 3 trasmette il film che io e Anna vedemmo insieme nel novembre del 1994, durante il nostro primo appuntamento. Purtroppo, ci sono cascato dentro. Maledetto zapping. Maledetta solitudine. Maledetto Ken Loach.
Ora non posso che rivedermelo, anche se lo conosco a memoria. Vederlo per ricordare e piangere. Le pietre piovono e fanno male, feriscono l’anima e torcono il cuore quando sono cristalli di ricordi. È iniziato da poco, Bob e Tommy stanno ancora tentando di ammazzare la pecora che hanno rubato. Senza successo, uccidere non è cosa loro.
Sento il bisogno di una canna. Quando piovono pietre, ci si può riparare solo sotto un ombrello di erba. Mi alzo per prendere la mia scorta segreta di roba buona. La tengo in una scatola di latta che comprammo….
Le pietre tornano a cadere e mi tarpano il respiro.
Quando Bob tenta di guadagnare qualche sterlina pulendo le fogne, io ho finito il mio terzo spinello.
Proprio in quel momento suona il telefono.
Faccio fatica a trovarlo, ma alla fine, con il cervello un po’ annebbiato, riesco a prenderlo.
“Papà che stavi facendo? Ti eri addormentato alla televisione, ci scommetto!”
“Figurati tesoro, guardavo una serie. È il telefono che si era nascosto.”
“Ma sei hai la voce tutta impastata di sonno.”
Queste sono le canne, Giulia mia, avrei dovuto chiosare. Invece taccio.
“Senti, dovresti farmi un piacere. Sono sul treno, mi sono accorta di aver dimenticato la borsa con il notebook in auto, nel parcheggio della stazione. Lì ho tutta la mia tesi e non vorrei me la rubassero. Sarebbe una tragedia.”
“Vorresti che l’andassi a prendere, immagino?”
“Ma allora sei sveglio! Si, tanto tu hai le chiavi di riserva.”
Sono felice di avere una scusa per slegarmi dall’ipnosi dolorosa del film. Essere utile a nostra figlia, poi, è un motivo più che valido. Il problema è che sono strafatto e non dovrei mettermi alla guida.
Vado alla finestra. Sta piovendo di brutto. Quando le cose si mettono male, potrebbero sempre andare peggio. Potrebbe anche piovere: un altro film, un altro ricordo.
Prendo le chiavi e scendo le scale. Se sono molto prudente, non ci saranno problemi e con questo tempaccio non ci saranno certo molte pattuglie in giro, almeno spero.
Non abito in centro; con il mio stipendio da operaio, da un anno in cassaintegrazione, come potrei? Per arrivare in stazione decido di non fare la strada principale, quella più diretta. Meglio evitare posti dove potrebbero esserci controlli. Faccio il giro largo passando dalla campagna.
Accidenti! Non potevo fare scelta peggiore. L’acqua viene giù come non mai. I miei riflessi sono rallentati dall’erba e ho difficoltà a distinguere il ciglio della strada, non c’è illuminazione pubblica e non si vede un cazzo.
Non vedo nemmeno lui e lo prendo in pieno. Lo colpisco, sbando e lo schiaccio pesantemente contro un muro. Non andavo veloce, con tutta questa pioggia era impossibile. Se non ci fosse stato il muro, forse si sarebbe solamente ferito o, con un po’ di fortuna, solo spaventato. Invece sbatte violentemente la nuca sul muro e ora giace immobile, incastrato fra la macchina e il muro. Il suo sguardo fisso e vacuo non promette bene. Mi sembra di conoscerlo. Faccio retromarcia e crolla, dovrei dire, se non sembrasse del tutto inopportuno, a peso morto sul terreno. Scendo dall’auto bestemmiando come un turco, non me ne voglia Erdogan e nemmeno Andrea.
In quest’anno di cassaintegrazione, ho frequentato un corso avanzato di pronto soccorso e da tre mesi sono volontario sulle ambulanze della Misericordia. Non sono un tipo che sta senza far niente. Conosco abbastanza bene le pratiche di rianimazione e mi metto all’opera. Non succede nulla. Dopo cinque abbondanti minuti, desisto. Gli tasto la carotide: nessun flusso di sangue. Verifico l’esistenza di un flusso respiratorio aiutandomi con il cellulare. E’ morto.
Ha una cinquantina d’anni, un fisico asciutto, sembrava in salute prima di incontrare la mia auto. Lo dico con cognizione di causa e non per intuito. Lo dico perché lo conosco. È Mario Cerberi, il padrone della fabbrica dove lavorava Anna. Perché fosse sceso dalla macchina che vedo parcheggiata in uno spiazzo vicino e cosa ci facesse qui con questo tempo non riesco proprio a capire. Torno in auto per prendere il telefono e chiamare la polizia.
Mi siedo sul sedile, impietrito, bagnato fradicio, confuso. Realizzo finalmente ciò che è successo: ho ucciso un uomo. Ho ucciso l’uomo che pubblicamente odiavo. Pioveva, la visibilità era ridotta, ma io ero strafatto. Dio sa che non volevo.
Guardo il telefono, non so cosa fare. Possono addirittura pensare che l’abbia fatto apposta. La nostra vicenda è nota, della morte di Anna aveva parlato anche il telegiornale nazionale. L’ennesimo incidente sul lavoro. Se arriva la polizia e mi fa i test antidroga, finirò nei guai: non sarebbero i primi ma diventeranno ulteriori e troppi. Penso a Giulia, più che a me, a quanto soffrirebbe, ancora. Non so che fare: quando sei sotto un temporale di pietre, fare degli articolati ragionamenti di etica non è facile.
Alzo gli occhi dal telefono e vedo la borsa che probabilmente Cerberi teneva in mano quando l’ho investito. Scendo a prenderla prima che finisca portata via da un ruscelletto che tutta questa pioggia sta già creando. La apro e si spalanca l’Eldorado. Mazzette e mazzette di biglietti da cento euro. Devono essere tanti, tantissimi soldi. La prendo, rientro in macchina, ingrano la marcia e vado via.
Non so come abbia fatto ad arrivare al parcheggio della stazione, intontito dall’erba, dal rimorso, impaurito dalla pioggia e turbato da difficili dilemmi morali. Raggiungo l’auto di mia figlia e recupero la borsa con il notebook. La sua tesi e il suo futuro che spero sia molto migliore del mio, sono in salvo, almeno per il momento.
Torno a casa andando pianissimo per la dannata pioggia, ma anche perché ho paura di essere fermato. L’auto è ammaccata e probabilmente sporca di sangue, nonostante la pioggia torrenziale. Se mi bloccassero, non potrebbero che fare due più due. Sul viale che mi riporta a casa, vedo nello specchietto retrovisore un automezzo con i lampeggianti accesi. Quella luce azzurra sembra un dito puntato su di me e sulle mie colpe. Sto per fermarmi e alzare istintivamente le mani, quando un’ambulanza a sirene spiegate mi supera correndo verso l’ospedale.
Arrivo finalmente nella strada di casa mia. L’acqua ha già raggiunto il marciapiede. Parcheggio a pochi metri dal portone, faccio di corsa le due rampe di scale che mi separano dalla salvezza.
Per prima cosa, sento il bisogno di una doccia bollente, per riscaldarmi, per pulirmi. Mi siedo poi in poltrona a vedere le gocce di pioggia scendere copiose dalla finestra. Gli effetti della cannabis cominciano a diminuire. La mente si fa più chiara, il buon senso si fa lentamente strada e la mia coscienza presenta una mozione. Sono sempre stata una brava persona, ho sempre rispettato la legge, orgoglioso di farlo. Devo ammettere che la legge non ha sempre rispettato me. La legge spesso non è dalla parte dei giusti ma da quella dei potenti. Ma non mi importa, io non sono come loro. Devo fare il mio dovere.
In più, mi sembra anche la decisione più ragionevole; non penso di aver scampo. I danni della macchina sono inequivocabili. Poi con tutte le telecamere che ci sono in giro, non faranno tanta fatica a trovarmi. Potrebbero facilmente pensare che fosse tutto premeditato. E poi c’è la borsa con i soldi. Come la giustifico?
Meglio anticiparli. Digito il 112. Stranamente nessuno risponde.
È stata una giornata pesante, piena di pietre, canne e disastri. L’acqua continua a venire giù copiosa. Sono stanco e nell’attesa di ritelefonare, mi addormento.
Mi sveglio che bussano violentemente alla porta. La casa è al buio. La polizia è venuta a prendermi.
Apro e vedo Alfredo e Lucia e i loro due figli; abitano al piano terra.
“Roberto. Abbiamo l’acqua fino alle ginocchia e sta crescendo, Possiamo stare qua?”
“Certo, Alfredo, accomodatevi. Vado a cercare un po’ di candele.”
Mi affaccio alla finestra e vedo che la strada sembra diventata un fiume.
La casa è fredda. Dispenso tutte le coperte che possiedo. Sono stanchi e stressati. I ragazzi e Lucia si sistemano sul letto matrimoniale in camera mia. Mando un messaggio a mia figlia. Ho recuperato il pc e sto bene: in casa, al riparo. Ma non sembra esserci linea.
In salotto, io e Alfredo, seduti in poltrona, chiacchieriamo un po’ del riscaldamento climatico e del governo che non fa nulla. Le due borse sono accanto al posto dove lui è seduto. Non so se le abbia notate e se si sia chiesto cosa ci facessero lì. Per evitare di dare importanza alla cosa, le lascio stare, fingendo sia tutto normale. Ma sono due anni che in questa casa niente è normale. Dopo un po’, ci appisoliamo anche noi.
Passa così una tragica notte.
Mi sveglio che Alfredo è alla finestra. Mi sente e dice:
“Roberto ti devo dare una brutta notizia”.
“La polizia…” farfuglio nel dormiveglia.
“Si, la polizia, se aspettiamo quelli! No, la tua auto è sopra quella del professor Usberti e sembra essere mezza distrutta”.
Mi affaccio anch’io. La mia macchina è ammaccata in tanti punti, come la maggior parte delle altre. E adesso giace sopra l’auto di un uomo gentile che abita al quarto piano. L’acqua comincia a ritirarsi dalle strade, lasciando fango e detriti.
Nel frattempo, si è svegliata anche Lucia. Preparo il caffè e facciamo colazione, con quel che ho. Mi pregano di dare un’occhiata ai ragazzi che ancora dormono. Vogliono scendere giù a vedere la situazione della loro casa.
Approfitto per mettere la borsa piena di soldi nel ripostiglio dietro la scatola degli attrezzi.
Fortunatamente è tornata la corrente elettrica. Accendo la televisione: la notizia principale è proprio la terribile alluvione che ha colpito le nostre zone. Ci sono già due vittime accertate, dice il giornalista, ma alcune persone risultano ancora disperse.
Anche la rete telefonica deve aver ripreso vita. Il mio cellulare suona, è mia figlia che chiede notizie. La rassicuro e la informo che abbiamo anche accolto a casa degli sfollati: Alfredo e Lucia.
“Come al solito, pensi per prima cosa agli altri, pa’.” Questa volta temo che si sbagli.
Quando riattacco, sento forte il bisogno di confidarmi con Andrea.
“Tutto bene Andrea? Avete avuto danni?”
“Niente, Roby, tutto a posto. Noi siamo su una zona leggermente rialzata, lo sai, se l’acqua arrivasse da noi, saremmo al diluvio universale.”
“Meno male, Andrea. Io però avrei tanto bisogno di parlarti.”
“È successo qualcosa a Giulia? “
“No, Giulia è all’Università. Una cosa mia.”
“E allora! Cosa sarà mai! Niente che non possa aspettare. Roby, è stata una notte pesante. Il sindaco mi ha chiesto di tenere aperta la chiesa per accogliere eventuali sfollati. Sono stanchissimo e pieno di gente. Magari nel pomeriggio, o meglio domani.”
“Andrea, mi devo confessare”.
“Confessarti? E che cosa è ‘sta novità? Saranno anni che non lo fai. E poi, Roberto, se tutti commettessero i tuoi peccati, saremmo ancora nel paradiso terrestre.”
Passo la giornata ad aiutare Alfredo e Lucia a spalare il fango della loro casa. Ogni volta che una macchina della polizia o dei carabinieri passa vicino casa, penso che siano venuti a prendermi. Ma nessuno mi considera. Preparo loro da mangiare, gioco a scacchi col figlio più grande. Il lavoro fisico e la compagnia di una famiglia, mi scongela un po’ il cuore e mi anestetizza i sensi di colpa.
Due giorni dopo, ho finalmente modo di parlare a quattrocchi con Andrea. Gli racconto ogni cosa.
“Prima di tutto, Roby, questa è veramente una confessione. Quindi io sono tenuto al segreto.”
“In secondo luogo, nessuno sospetta alcunché. Nessuno pensa che le vittime non siano vittime dell’alluvione. Nessuna indagine per fattispecie di reato diverse è stata aperta. Il tuo morto è stato trovato molto lontano dalla strada. Pensano che sia uscito dall’auto per trovare riparo e sia stato travolto da un’ondata d’acqua. Nessuno lo ha collegato a te.”
“Diciamo la verità; è stato veramente un incidente. È vero che eri fatto e non avresti dovuto metterti a guidare. Questa è la tua colpa, anche se nessuno può dire con sicurezza che non sarebbe successo ugualmente se fossi stato sobrio”.
“In realtà, avrei fatto l’altra strada e non sarei passato da lì. Lui sarebbe vivo, per quanto stronzo fosse.”
“Chi ti conosce sa il periodo tremendo che hai passato e stai passando, Roberto. E noi tutti siamo esseri deboli, imperfetti. Siamo tutti peccatori, direbbe qualcuno, più altolocato di me. E tu ne hai viste tante, troppe direi. Prima l’incidente di Anna, poi l’indagine finita in nulla. E poi, come se non bastasse, la cassa integrazione straordinaria, senza grandi speranze di tornare alla normalità. Ah, dimenticavo, il mutuo sulla casa per pagare l’avvocato.”
“Fra tre mesi, la casa, me la portano via.”
“Appunto. Cerberi era quello che era. Lo sanno tutti che aveva risparmiato sulle misure di sicurezza e costringeva gli operai a smontare il congegno di bloccaggio automatico sul macchinario dove lavorava Anna per aumentare la produttività. Tu e io lo sappiamo che ha atteso prima di chiamare l’ambulanza per poterlo rimontare. Forse Anna si sarebbe salvata. Chissà?”
“Forse lui si sarebbe salvato se tu non avessi fumato. Chissà?”
“Ma io non riesco a dormire la notte, Andrea. Vedo il suo viso ovunque.”
“È questa la differenza. Mi sa che lui dormiva benissimo. Ha pagato un sacco di gente per insabbiare le indagini. Alle feste comandate, veniva anche a messa con la famiglia. Ma almeno da me non si è mai confessato.”
“Un’ultima cosa, Roberto, ma fondamentale. Che ci faceva Cerberi con tutti quei soldi? Nessun uomo onesto tiene tutto quel contante. O erano tangenti o evasione fiscale. O peggio, faceva affari con la mafia. Come si è sussurrato più volte”.
“Senti a me, Roberto. Tieni per te la storia che hai condiviso con me e con Dio. E tieniti anche i soldi. Fai finta di aver vinto la causa, Roberto. Quei soldi ti spettano. Il Signore fa giustizia meglio degli uomini. Occhio per occhio, incidente per incidente.”
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Un anno è passato, Giulia si è laureata e sta per iniziare la specialistica in medicina d’urgenza. Magari riesce a curare l’ulcera che da un anno mi perseguita. Ho salvato la casa e ho affrontato il licenziamento con una certa tranquillità, ovviamente solo economica. Come sapete, ho un gruzzoletto che mi porterà fino all’età della pensione. Dico a tutti che Anna aveva messo dei soldi da parte, a mia insaputa. E infondo, se ci pensate, è vero.
Ma non sono sereno. La notte non riesco a dormire. Nei sogni spesso lo vedo, con gli occhi spalancati fra il cofano e il muro. Le brave persone assaporano fino in fondo il retrogusto amaro del rimorso. Andrea me lo aveva predetto, questa sarà la mia condanna.
Durante quelle notti, quando mi sveglio agitato e sudato, mi calmo solo rivendo nella mente la scena finale del film. Padre Barry celebra la prima comunione della figlia di Bob, Coleen. Il suo vestito è bello e la rende felice. Finalmente si sente uguale alle sue amichette.
Se fosse questa la differenza fra ricchi e poveri? Mentre quest’ultimi combattono contro tutte le avversità solo per sentirsi alla pari con gli altri, i ricchi fanno carte false per mettersi davanti a tutti.