Buongiorno
Buongiorno amore
che fai?
Manca il cuoricino, penso guardando lo schermo dello smartphone. Di solito c’è sempre un cuoricino accanto al buongiorno. Stamattina no. Aspetto che Giorgia risponda, intanto le mando io un cuore, enorme e pulsante.
Sono le sette del mattino, piove. Come succede sempre, quando piove, il traffico è in tilt. Non è una pioggia forte ma a guardare il cielo, così nero, dà l’idea che continuerà per tutto il giorno.
Litigo con il tergicristallo.
Se lo lascio andare di continuo, dopo un paio di archi disegnati tra le gocce di pioggia, si sente lo stridore della gomma sul vetro asciutto. Se invece lo metto al minimo, a intermittenza, in quei secondi di pausa il parabrezza è di nuovo invaso da rivoli d’acqua che deformano il mondo fuori dall’auto.
Intanto il telefono, aggrappato ad una bocchetta dell’aria, si rianima, sento la vibrazione sorda che accompagna le notifiche. Giorgia ha risposto.
Mi preparo per uscire, ho
i colloqui a scuola di
Mattia. Non ricordi?
i colloqui a scuola di
Mattia. Non ricordi?
Ok. Ma è presto. Non erano
alle undici?
alle undici?
E poi non può andarci il padre? Penso. Ma non lo scrivo, so quanto lei ci tenga a seguire suo figlio. E poi il padre ha la sua, di famiglia, a cui pensare, e meno contatti ha con Giorgia più io sono tranquillo.
Accanto al finestrino si ferma una specie di marziano, casco integrale e un’incerata blu scura che col suo scooter per poco non mi prende lo specchietto. Mi fa un cenno di scuse con la mano e riparte zigzagando tra le auto. Ma non cadi mai?!
Sai che non mi piace fare
le cose di corsa.
le cose di corsa.
Poi ci vediamo un po’ prima
con le altre mamme.
con le altre mamme.
Lo sapevo, cazzo. E me lo dice adesso. Odio quando fa così, quando mi dice le cose all’ultimo momento.
Sarà meglio che mi calmi, prima di rispondere: a lei non piacciono le scenate di gelosia. Aspetto un po’ poi provo a metterla sullo scherzo:
Sicura che non ci
siano anche papà?
siano anche papà?
Non ricominciare
Non ricomincio.
Anzi, la finisco qui: vai dove ti pare, cazzo!
Do un pugno al volante.
Poi respiro e torna la calma. Forse sono io che esagero, magari va davvero a bere un caffè con le altre mamme. No, anzi, sono certo che sia così!
La mattina in agenzia avanza lenta, a fatica. La pioggia è salita di intensità, i siti meteo danno l’ennesima allerta. Avevo un appuntamento alle dieci e trenta e la cliente ha disdetto. Come darle torto. Andare in giro a vedere case, con questo tempo. Sto per chiamare la proprietaria per avvisarla e chiederle di fissare un nuovo appuntamento quando penso di nuovo a Giorgia.
Magari non è andata. Sarebbe da folli uscire prima per andare a fare la cretina con le altre con questa pioggia.
Non voglio scriverle, ho deciso di aspettare lei, i suoi tempi.
O forse dovrei dire i suoi comodi?
Un tempo mi scriveva in continuazione. Un tempo ero tutto il suo mondo.
Guardo fuori. Pioveva, anche la prima volta che si è presentata in agenzia. Si era da poco separata dal marito. Volevano vendere la casa dove stavano e prenderne una più piccola per lei e Mattia. Amore a prima vista, lei per la prima casa che le avevo mostrato, io per lei.
Per carità, poi ce n’è voluto di tempo prima che accettasse un mio invito, incontri che cercavo di far apparire come casuali, quando mi costavano ore di appostamenti. Ma alla fine ce l’ho fatta.
Comunque, i minuti passano ma lei non mi scrive ancora. Provo io, mi arrendo.
Visto come piove?
c’è l’inferno per strada
c’è l’inferno per strada
Lo smartphone è appoggiato accanto alla tastiera con lo schermo rivolto verso l’alto. Ogni tanto lo prendo per controllare ma se fossero arrivate notifiche le avrei viste. E non arriva nulla. Non ha neanche visualizzato il mio messaggio.
All’improvviso mi decido e mi alzo.
“Mauro, io esco”
“Ma tu sei pazzo, con questo tempo. Non aveva disdetto la cliente?”
“Sì, ma devo passare a vedere un altro appartamento a via dei Salici, al massimo ci arrivo a piedi.”
“Contento te.”
Infilo il giaccone e tiro su la lampo fino a coprirmi anche mezza faccia. Recupero un ombrello che starà lì, abbandonato da qualche cliente, da non so quanto tempo. Forse ce l’hanno venduto con il portaombrelli, come campione.
Lo apro, per fortuna è sano.
“Vado, anche perché altrimenti la mattina non mi passa più.”
In via dei Salici c’è la scuola di Mattia, e davvero è qui vicino. Ci ho passato tante di quelle mattine ad aspettare di vederla arrivare, con il bambino tenuto per mano e lo zainetto sulla spalla.
Non sono ancora le undici, se mi sbrigo magari riesco a vederla. Se pure mi perdo il suo arrivo posso sempre aspettare che esca dopo il colloquio. Le faccio una sorpresa.
Di fronte alla scuola c’è un bar piccolissimo. All’epoca degli appostamenti avevo fatto anche amicizia con il proprietario, un ragazzo simpatico che ci lavora per lo più da solo, tranne al mattino presto e a pranzo che si fa aiutare da una signora che poi ho saputo essere sua madre.
“Buongiorno!” Mi dice con un sorriso. “Era un po’ che non la vedevo. Che ci fa in giro con questo tempo?”
Mi rigioco la scusa dell’appartamento, poi gli ordino un caffè.
Mi metto sul lato del bancone vicino alla vetrina dell’ingresso, da cui è possibile controllare l’entrata della scuola. A quest’ora non c’è quasi nessuno, quindi le poche persone che entrano o escono dall’edificio si vedono abbastanza bene. Impossibile che mi sfugga.
“A che ora ha l’appuntamento?”
“Alle undici.” Rispondo.
“Con questo tempo è facile che ritardi un po’”
“Già.”
In effetti le undici ormai sono passate. Quasi certamente, quando sono arrivato, lei era già dentro; quindi, non mi resta che aspettare la fine del colloquio.
Il barista ogni tanto prova a fare conversazione buttando lì banalità sul tempo. Io annuisco con un cenno della testa e un sorriso di cortesia che spero gli faccia capire che non ho nessuna voglia di parlare.
Fortunatamente entra un tizio, tutto sgocciolante, che mi toglie dall’imbarazzo e dal fastidio.
“A Fra’, famme un caffè, corretto co un po’ de sambuca, grazie.”
“Subito Marce’.”
“Mamma mia che tempo, li mortacci!”
“Arrivi adesso?”
“È tutto bloccato, non sai pe arrivà, co st’acqua. Avrò beccato almeno due incidenti. Uno pure parecchio brutto.”
“Eeeh, mai come quello dell’anno scorso, quello del Mercedes, te lo ricordi?”
“E come, non me lo ricordo? È entrato nel negozio de Michele co tutta la macchina!”
Ridono, evidentemente l’incidente non era stato poi così brutto. Io li lascio parlare e continuo a guardare fuori, deciso a non farmi coinvolgere nei loro discorsi.
Intanto si sono fatte le undici e trenta. Ho bevuto un succo alla pera per ingannare il tempo e anche per giustificare un po’ la mia attesa. Alla fine, decido di pagare.
“Ormai me sa che la cliente non viene più.” Mi dice il proprietario del bar con un’espressione che vorrebbe essere consolatoria.
“Credo anche io, e nemmeno risponde al cellulare purtroppo. Me ne torno in agenzia.”
Pago, saluto e sono fuori. Sotto l’ombrello.
Controllo ancora una volta il cellulare. Il mio messaggio a Giorgia è arrivato ma lei non lo ha visualizzato.
Le riscrivo.
Tutto ok?
Niente, neanche la doppia spunta, aspetto ancora un minuto.
La chiamo. Qualche secondo di silenzio poi la voce meccanica dell’operatore. Irraggiungibile.
Sto pensando che magari potrei entrare a scuola, magari dico che devo fare un colloquio, o che dentro c’è già mia moglie. Ma è rischioso, poi non vorrei mi vedesse Mattia, Giorgia non vuole ancora che sappia di noi.
Dal telefono nessuna novità. Giuro che appena riesco a parlarci mi sente, cazzo. Sento la rabbia montare e se non mi calmo combino qualche guaio.
C’è una parte di me che sa, è la parte razionale, quella socialmente presentabile, affabile, persino simpatica all’occasione. Ma è una parte che certe volte sparisce e allora non ho più freni.
Al momento è ancora con me, lo sento. E, allo stesso tempo, sento che mi sta lasciando. È questa attesa snervante, assurda; è perché non risponde a quel cazzo di cellulare, e vorrei sapere il motivo. È questo che merito? È questo?
Sono le undici e tre quarti ormai. Ammesso che Giorgia fosse già stata dentro, a quest’ora dovrebbe aver finito da un pezzo. Ma cosa ci vuole a dare un’occhiata al telefono e rispondere che è tutto ok.
Attraverso la strada ed entro nell’edificio.
Mi ferma una signora con un camice blu.
“Dica?”
“Sì, buon giorno, c’è mia moglie dentro per un colloquio”, rispondo d’istinto, “devo lasciarle solo delle chiavi.”
“Guardi mi dispiace ma non credo ci sia nessuno dentro. Lei è il primo genitore che vedo, oggi.”
Di sicuro si sbaglia.
“Guardi, mia moglie aveva appuntamento con un professore alle undici”
“In che classe sta suo figlio o sua figlia?”
“Figlio. Eh, guardi, fa la seconda ma non mi chieda la sezione, non me la ricordo mai.”
“Nome?”
“Io?”
“Del ragazzo.”
“Mattia. Mattia De Santis.”
“Aspetti qui.”
Sparisce in una specie di gabbiotto, torna dopo qualche secondo.
“Guardi, la sezione è la B, ma non c’è nessun colloquio stamattina. Mi dispiace.”
Nessun colloquio? Vorrei dirle che è impossibile ma mi sembra abbastanza sicura da non ammettere dubbi. Ripenso ai messaggi di questa mattina, al fatto che ora è irraggiungibile, e tutto il mondo mi crolla addosso.
“Ma certo! Che idiota. Mi scusi ho sbagliato io, ho confuso…” Non so come continuare, spero solo di non aver fatto una figura da cretino.
“Succede, non si preoccupi”
Mi fa un sorrisino ebete, di cortesia, gliene direi volentieri quattro ma mi devo ancora riprendere dal colpo. Mi sforzo di restituirle il sorriso.
“Faccia finta di non avermi mai visto, che figura. Mi perdoni.”
Mi precipito di nuovo fuori. La pioggia non accenna a diminuire. Riprendo il telefono con una mano
Dove cazzo sei?
E vediamo cosa si inventerà ora.
Nessun colloquio. Mi ha preso per il culo.
Comincio a camminare lungo via dei Salici con la testa bassa e l’ombrello inclinato in avanti.
Non so dove stia andando. Penso solo a quello che può aver fatto Giorgia. Al perché non mi risponde, perché mi ha mentito.
Devo rimanere calmo. La mia parte buona è tornata, deve essersi preoccupata, il colpo è stato troppo grande. Respiro lentamente e mi guardo intorno.
Senza rendermene conto sono arrivato all’incrocio con la via principale. È una distesa di auto bloccate, di stop rossi e di frecce gialle e arancio, c’è anche il blu lampeggiante di qualche sirena, più giù, all’incrocio successivo. Lo scrosciare incessante della pioggia fa da tappeto musicale ad assoli di clacson. Poco più avanti c’è la pensilina di una fermata dell’autobus, non c’è nessuno perciò vado a ripararmi lì sotto.
Cerco di raccogliere le idee, di mettere dei punti su questa faccenda.
Mi ha mentito! Questo penso che ormai possa darlo per certo.
Magari però, l’incontro è stato annullato all’ultimo momento, o magari si era confusa soltanto. Sì, aveva sbagliato giorno, tutto lì.
E perché ora è irraggiungibile? Perché non risponde?
La pioggia adesso sembra meno intensa, riparto in direzione della sua casa. C’è un po’ di strada ma andare a prendere la macchina sarebbe un’idea assurda e tantomeno potrei prendere un autobus. Anche la corsia preferenziale è intasata.
Cammino a passo svelto, non mi frega neanche di evitare le pozzanghere e in testa ho soltanto la voglia di afferrarla per spalle e urlarle in faccia: perché?
Perché devi trattarmi in questo modo? Pensi che meriti un trattamento simile? Non credi mi si debba rispetto? Non sono abbastanza per te?
Stronza! Sei soltanto una stronza. O dovrei dire troia? Ti fai scopare da qualcun altro? È così?
Più vado avanti e più la rabbia cresce. Urto qualcuno che procedeva lento, senza rendermene nemmeno conto. Mi urla dietro.
“Ma faccia attenzione!”
“ma vaffanculo!”
Accelero ancora con più rabbia. Mi sono avvicinato all’incrocio dove c’è sempre la luce blu lampeggiante, è un’auto dei carabinieri. C’è una piccola folla, sotto gli ombrelli, che nasconde la strada. È successo qualcosa.
Ma io ho fretta, chiudo l’ombrello, tanto non sento più neanche la pioggia, e mi infilo tra la gente.
“Permesso? Fate passare?”
Sono in troppi, qualcuno protesta e rischio di prendermi la stecca di un ombrello in un occhio, devo girare intorno a quell’assembramento per arrivare sulla strada e attraversare.
“L’hanno investita.” Sento dire a qualcuno.
“Morta sul colpo.” Risponde un altro.
Ora vedo anch’io il corpo disteso, coperto da un telo da cui sbucano due piedi scalzi.
Ma che cazzo, penso. La rabbia scompare di colpo. È l’effetto che mi fa vedere quei piedi. Un carabiniere sta con l’ombrello aperto accanto al cadavere, protegge più il corpo che sé stesso.
Una scarpa da ginnastica, poco più in là, l’altra non so dove sia.
Mi avvicino, ora noto anche una borsa. Mi viene all’improvviso un’idea in testa. La borsa potrebbe essere tranquillamente una di quelle di Giorgia, ma ne ha talmente tante che non ne sono sicuro. Anche la scarpa potrebbe essere una delle sue.
Cerco di avvicinarmi ancora ma qualcuno in divisa mi blocca.
“Per cortesia.”
Ma io adesso sono preso dal terrore
“Mi lasci passare, chi è quella donna?”
“Signore si calmi per favore”
“Riconosco la borsa!” urlo, anche se non so se sia vero. Ma ora mi sembra quasi di vedere Giorgia lì distesa.
Si avvicina un signore che ha assistito alla scena, da come si rivolge al carabiniere penso si tratti di un suo superiore.
“Stia calmo signore, come si chiama la donna che pensa di riconoscere?”
“Giorgia”, rispondo in preda al panico.
“Non è lei.”
Lo guardo, resto in sospeso per un attimo.
“Non è lei,” mi ripete lui, “Non si chiama così quella povera donna.”
Ricomincio a respirare.
“Tutto bene? Coraggio, è stato solo uno spavento.”
Annuisco e mi allontano di nuovo. Adesso noto anche un altro uomo, in piedi accanto all’auto con le quattro frecce ferma in mezzo alla strada. Piange. Anche lui ha di fianco qualcuno che lo ripara con un ombrello. Piange e ripete: “Non l’ho vista! Giuro, non l’ho vista! Pioveva forte, ho provato a frenare. Lo giuro.”
Vado via. Prendo la direzione dell’ufficio, però.
Devo riprendermi, lo spavento mi ha fatto passare improvvisamente la rabbia, ha fatto tornare la mia parte buona che per fortuna se ne sta sempre in un angoletto della mia testa, pronta a intervenire.
Mi resta la preoccupazione per Giorgia, il dubbio sul colloquio inesistente.
Poi sento vibrare il telefono nella tasca.
È lei. Mi sta chiamando.
“Pronto?”
“Daniele cosa vuoi?”
Mi torna in mente l’ultimo messaggio che le ho mandato: dove cazzo sei?
“Scusami, ero solo preoccupato perché non mi rispondevi.”
“Non mi prendeva il telefono. Daniele, non puoi fare così.”
“E il colloquio come è andato?” le domando a bruciapelo.
“Ma quale colloquio. Ho sbagliato settimana, il colloquio è giovedì prossimo.”
Mi sento un cretino adesso.
“Sono scesa giusto a prendere due cose per pranzo e sono tornata subito. Daniele dobbiamo parlare.”
“Scusa”, le dico ancora.
“Dico davvero, così non possiamo andare avanti.”
“Ho capito” Rispondo.
“Daniele.” Quando mi chiama per nome vuol dire che le cose non vanno.
“Daniele, mi spaventi”
Riattacco il telefono senza neanche salutarla.
Lo so, spavento anche me.
Sono di nuovo sotto la pensilina della fermata, adesso. La pioggia continua a cadere incessante. Cerco nella tasca interna il portafogli e recupero un biglietto da visita.
Dott.sa Giulia Chiambrini - Psicoterapeuta.
Ce l’ho da un po’ ma ogni volta che mi è venuto in mente di chiamare quel numero, alla fine, ho rinunciato con un pretesto. Stavolta chiamo davvero.
Sì, la chiamo davvero perché quando ho visto quel corpo, per un solo istante, un solo istante che non riesco a cancellare, io non ho temuto che sotto quel lenzuolo ci fosse lei. Io l’ho desiderato.