Ma dove sono finita? Pioggia e vento premono, insistono, spingono da ogni direzione e creano un sinistro concerto. Sono entrata nella prima casetta con la porta aperta, senza chiedere il permesso a nessuno. La stanza è lunga e stretta, assomiglia a un deposito più che un’abitazione. I proprietari avranno accolto l’invito dell’esercito pakistano e saranno scappati. Ormai da diversi giorni, gli altoparlanti ripetono di abbandonare l’area intorno al fiume Chenab, a causa dell’imminente arrivo dell’ennesimo uragano.
Il mio vestito, verde corallo, è inzuppato di acqua, le gocce cadono sui piedi nudi e tremo per il freddo. Lo sguardo vaga, si perde nella desolazione della stanza. Nonostante ci sia una piccola finestra, la visibilità è scarsa, soprattutto verso il fondo. Alla mia destra, alcuni sacchi, di diverse dimensioni, sono appoggiati vicino alle pareti, insieme a una ruota sgonfia, con il cerchione arrugginito; appartiene di sicuro a qualche carretto o a un risciò. Nell’angolo più buio, opposto al punto in cui mi trovo, intravedo un giaciglio, probabilmente di paglia, su cui c’è qualcosa che non riesco a definire. È immobile, anzi, no, si muove! Trattengo il respiro, cerco con fatica di mettere a fuoco l’oggetto delle mie attenzioni. Si tratta di un animale o di una persona? Allungo le mani, nella speranza di trovare un oggetto per difendermi in caso di attacco. Sono attimi lunghissimi, non so come comportarmi. Vento e pioggia insistono nella loro azione, il rumore è martellante, amplificato dall’ansia che si è impossessata di me. Si è mosso, sì è mosso per la seconda volta! Scorgo due punti bianchi, forse sono… occhi! A chi appartengono? Le vibrazioni del metallo, di cui è costituita la baracca, riverberano il suono, lo prolungano all’infinito. È un miracolo che finora sia rimasto tutto in piedi. Raccolgo un sassolino e lo lancio. Un gemito, una conferma: non sono sola! Il verso proviene da una persona, ne sono sicura. Batte forte il mio cuore, eppure, non posso aspettare oltre. La curiosità ha la meglio sulla paura.
«C’è qualcuno?»
Nessuno risponde, eppure percepisco una presenza. Nonostante sia nascosto dall’oscurità, c’è un corpo che parla, si agita e freme. Prendo di nuovo l’iniziativa.
«Ora mi avvicino, non ho cattive intenzioni.»
Insisto, non ho alternative. «Mi chiamo Ikram. Ho bisogno di un riparo, giusto il tempo di riprendermi e poi me ne vado.»
Faccio un passo in avanti, molto lentamente e poi un altro ancora. L’istinto non conosce la prudenza, si fida solo delle proprie sensazioni. Intravedo una mano afferrare qualcosa che assomiglia a una stampella di legno. Persevero nella mia azione, incurante del rischio e continuo a lanciare messaggi rassicuranti.
«Non sono pericolosa. Chiedo solo la tua ospitalità per poche ore.»
Proseguo, conquisto altri metri. Con grande fatica, riesco a mettere a fuoco la parte più buia della stanza. Sul giaciglio c’è una ragazza, con la schiena appoggiata alla parete. Ora la figura si distingue meglio. È magra e… le manca una gamba, quella sinistra. La giovane donna potrebbe avere ha la mia età, quindici anni, ma il buio mi impedisce di definire meglio le fattezze fisiche.
Un boato mi fa sussultare. Forse una baracca, simile alla nostra, è stata travolta dalla forza delle acque: quanto potrà resistere la nostra? Attendo per qualche attimo, poi riprendo a parlare.
«Ora mi siedo vicina a te; ho camminato tanto e sono stanca». Percepisco il suo disagio. Ci scrutiamo e ci studiamo in silenzio. In testa ha un velo, scuro come il vestito.
«Mi piacerebbe sapere come ti chiami.» La padrona di casa non si aspettava la mia richiesta. Poi, con un filo di voce sussurra: Noor. Sentire il suo nome mi induce a essere ottimista. Sorrido, soddisfatta di me stessa.
«Come mai sei da sola? Dove si trova la tua famiglia?» Noor non risponde, gira la testa, evita il mio sguardo. La comprendo, conosco bene il fastidio che si prova quando le persone ti chiedono di parlare della sfera personale. Non insisto, restiamo entrambe in ascolto della voce assordante dell’uragano e dei nostri pensieri. Ho freddo, istintivamente mi avvicino e… l’abbraccio.
«Scusa, ho i brividi e ho bisogno di calore.»
È tesa Noor, non credo sia abituata ai gesti di affetto. A differenza sua, il mio carattere mi porta ad accorciare le distanze. Ho sempre avuto un estremo bisogno di contatto fisico, una necessità che in tante occasioni ha attirato su di me le critiche dei parenti e dei vicini.
Con il trascorrere dei secondi l’iniziale diffidenza scompare, scema la tensione e il nostro l’abbraccio diventa piacevole. Ho un sussulto. Mi tocco il ventre, qualcosa si è mosso dentro di me.
Sento il bisogno di giustificare la mia irruzione nella baracca. «Scusami, sono entrata come una ladra. Ero disperata». Faccio una pausa, con la mano tocco la paglia su cui sono seduta: è umida. «Perdonami, ti ho bagnato il lettino, ora mi sposto.»
Noor mi stringe il braccio, mi vuole vicina a sé. Poi, in modo inaspettato, con tono indagatore, pronuncia il nome del paese in cui ci troviamo.
«Urs?»
Sono spiazzata. Cosa vuole sapere? Se sono di Urs o il motivo per cui sono arrivata fino al suo villaggio? Esito, sono coraggiosa e determinata, ma detesto esporre le mie fragilità. E poi, perché Noor non si esprime come tutti? Le manca una gamba, non la lingua! Mi stacco da lei, nel tentativo di sottrarmi alle gocce che hanno iniziato a cadermi sulla testa.
Decido di rispondere. «Non sono di Urs, abito vicino a Multan. Ho camminato per ore alla ricerca di mia cugina. Credevo di trovarla nascosta nella fortezza, un luogo bellissimo che lei adora. Nei mesi scorsi l’hanno costretta a sposarsi contro la sua volontà. Per questo motivo è fuggita, ha approfittato dell’uragano. Tra l’altro è incinta, è davvero una pazza!»
Noor mi guarda perplessa, forse non crede alle mie parole. È buffa la mia nuova amica, ha il viso da donna e il modo di muoversi di una bambina. Sento ormai gli schizzi di acqua ovunque, le lamiere non riescono più a limitare il loro passaggio. Stringo Noor a me. Accarezzo i suoi capelli e riprendo il discorso con un filo di voce.
«Vuoi davvero sapere perché mia cugina è scappata?» Noor annuisce.
«Amin, suo marito, la picchiava e la costringeva a fare delle cose molto brutte. Lo conosco bene, è un violento, come la maggior parte degli uomini.»
Avverto il corpo di Noor irrigidirsi, le mie parole le hanno provocato una reazione nervosa. La osservo. Una lacrima scivola lungo il viso, lambisce il naso e si perde sul labbro superiore. Piange… il suo turbamento mi fa riflettere. Una donna senza un uomo è considerata una nullità. La mancanza della gamba le ha causato, oltre alla sofferenza fisica, un immenso dolore interiore. A Noor è stata negata anche la possibilità di avere un marito bastardo. Non so cosa sia peggio.
Un’onda emotiva mi travolge e istintivamente l’abbraccio più forte: entrambe abbiamo un bisogno disperato di affetto. Dopo l’iniziale resistenza, il suo corpo si abbandona al mio.
Le sussurro dolcemente: «Ora non sei più sola, ci sono io con te. Ti voglio bene.»
Un fragore interrompe la nostra parentesi affettuosa. Una parte del tetto precipita a terra, dalla parte opposta, verso la porta. Siamo state fortunate, poteva cedere l’intera copertura e schiacciare i nostri corpi.
Mi rendo conto che il giaciglio di paglia è sempre più bagnato. Aiuto Noor a spostarsi verso due sacchi ancora asciutti. «Mi dispiace per il tuo lussuoso letto», affermo. Sorridiamo, adoro sdrammatizzare, in particolare quando le situazioni sono complicate. Mi accarezzo di nuovo il ventre. Il movimento della mia mano non passa inosservato. Noor, a sua volta, mi sfiora la pancia, ha capito tutto…
L’acqua è ormai ovunque, entra senza sosta dal varco che si è aperto sul tetto. Non so per quanto tempo resterà in piedi la reggia di Noor, eppure non sono preoccupata, è una sensazione che non riesco a spiegare.
È perspicace la mia compagna di sventura, non ha senso continuare a negarle la verità.
«Hai ragione, sono incinta! Prima parlavo di me, non di mia cugina. Sono esasperata, non sopporto più le violenze di mio marito; pensa che mi ha pestata anche dopo avere saputo della gravidanza. Detesto lui e la sua famiglia». Mi fermo, senza rendermi conto ho alzato il tono della voce. È bastato rievocare la situazione familiare per scatenare in me la rabbia e un profondo turbamento. Attendo, in attesa di recuperare la lucidità necessaria per proseguire. Respiro profondamente.
«I miei genitori mi hanno venduta per sfamare l’intera famiglia, almeno così mi è stato detto. È successa la stessa cosa a tante mie amiche. Una di loro, Adila, si è persino suicidata, ha resistito solo una settimana». Fatico a proseguire.
«Credimi, Noor, ho provato a essere una brava donna di casa, ho obbedito, ho subito, ma c’è un limite a tutto». Fisso lo squarcio che si è aperto sul tetto, lo sguardo si perde nel grigiore del cielo.
«Noor, io non sono come mia mamma, lei ha sempre sopportato ogni genere di umiliazione. Preferisco morire, piuttosto di essere la schiava di Amin e della sua famiglia. Perdonami se ti ho mentito, sono una irri...»
Soffoco la parola in un mare di lacrime, non riesco più a trattenerle. Ora è Noor che mi stringe forte, è bellissimo! Restiamo abbracciate per diversi minuti, finché il rumore di un motore mi ridesta dal torpore emotivo in cui sono caduta.
«A tutti gli abitanti, uscite dalle vostre case, vi portiamo al sicuro». La voce proviene da un megafono, suppongo appartenga a un militare dell’esercito pakistano intento a evacuare l’area. Avverto anche delle voci femminili, forse arrivano dalle abitazioni vicine.
«Mi sentite? Chiunque si trovi all’interno deve uscire, è un ordine!»
L’invito è rivolto a noi, da parte di una persona che suppongo sia davanti all’ingresso. La porta si apre. Noor mi fissa, con i suoi occhioni, implora il mio silenzio. A lei non serve parlare, la sua espressività non ha eguali. L’assecondo, restiamo ferme, sdraiate tra i sacchi e la parete. Sono attimi interminabili, entrambe speriamo di restare invisibili. Le nostre preghiere vengono ascoltate, la penombra ci nasconde, impedisce di venire scoperte.
Ci guardiamo sorridenti. L’unico futuro che vogliamo è il nostro presente, l’abbraccio reciproco. Siamo un corpo unico, non servono altre parole o spiegazioni.
Il rumore del motore ci conforta. Lo sentiamo allontanarsi, fino a perdersi, nella sinfonia funebre delle gocce, che continuano a cadere dal cielo.
Chiudo gli occhi per l’ultima volta. Li riaprirò nel Nirvana, insieme a Noor e al mio bambino.