Con le infermiere ho una voce da bar, roca e sicura.
Non mi sento la febbre, ma il termometro non lo posso evitare, fa parte della routine imposta del mattino.
Per non stare a giustificare la mia stanchezza mi giro sull’altro fianco, quello meno visibile, meno in luce.
L’ospedale, un silenzioso edificio bianco e tozzo circondato da giardini e un piccolo canneto, sembra una mucca al pascolo. Dalla finestra ne vedo metà, l’altra metà la immagino con precisione onirica, come spesso l’ho trovata nei miei sogni ospedalieri.
Al mio compagno di stanza, Giorgio, manca il potassio, la voce, e la gioia di vivere.
Per colpa dell’alcol cammina in modo discordante, a stento, chiama l’infermiere pure per andare in bagno con il timore di cadere. Ha il pigiama dello stesso colore del tram che passa sotto casa mia.
Sarà pure un infodump questa notizia, ma la dico spesso per farlo sorridere.
A lui fanno il solito test, le solite domande: Che giorno è? Dove ci troviamo? Mentre apre e chiude la mano destra, e poi la sinistra. Sorrido perché è identico al mio e a quello di tanti altri. Non ho capito se è perché gli mancano i pazienti o la fantasia.
La porta resta sempre aperta in questo reparto, giorno e notte. A me questo non disturba, mi sento al sicuro e la luce del corridoio mi tiene compagnia.
Mi ripasso la data, il giorno, il mese e l’anno, e dove ci troviamo me lo ricordo bene, ho impiegato un’ora per parcheggiare.
Lo spettacolo della natura qui intorno è comunque bello, in alto i castelli romani e tutt’intorno una pista ciclabile, ovviamente poco frequentata, tutte le piste ciclabili di periferia sono poco frequentate.
Devo decidere perché sono qui, se è perché sono curioso. Ho poche risorse, adesso, per stabilirlo.
Se si tratta di qualche mio disagio lo deciderà in seguito un team di bravi dottori che perlustra il mio corpo e la mia mente.
Non posso nemmeno far entrare un po’di aria fresca, le finestre sono sigillate.
Posso comunque muovermi, spostarmi a mio piacimento, l’ospedale non è una galera mi ha detto uno vestito di bianco, più medico che infermiere, al quale avevo chiesto ingenuamente l’autorizzazione a girare un po’. E da allora faccio colazione al bar con cornetto e cappuccino ristretto, e scalo cinque piani a piedi senza prendere l’ascensore per non perdere l’umore e il tono muscolare.
Piove? Mi chiede il nuovo ricoverato con voce lucida e il cervello con architettura ingarbugliata.
In cinque giorni se ne sono alternati tre. Spaventati o guariti, a un certo punto firmano e se ne vanno.
- No , Pietro, non piove.
- A me sembra che piove.
Dopo un mazzetto di secondi la stessa domanda con il viso rivolto all’unica finestra.
- Piove, vero?
- No Pietro non piove, ma pioverà, rispondo con un misto di pietà e ironia per far sorridere la moglie che in bellavista finge di ascoltarci, ma ormai è fuori dal mondo, quella malattia ti ci porta ad allontanarti, soprattutto per vigliaccheria, non sai mai cosa riserva al tuo ammalato.
- Guarda bene, a me sembra che piove, - dice.
Imploro il cielo che faccia cadere un po’ di pioggia per farlo contento e non perdere la pazienza, ma non si può perdere la pazienza in un letto d’ospedale. Sono arrivato qui due giorni prima di lui e sento una stravagante responsabilità e generosità nei suoi confronti.
Gli presto i miei occhiali da lettura da quattro soldi, i suoi non li trova.
Li sposta in alto sulla fronte, come dopo aver letto un articolo importante sul quale deve riflettere, ma non ha letto niente.
- Avevo due libri, li hai visti? Non li trovo più.
- Pietro, ti confondi, non avevi nemmeno il pigiama quando sei arrivato qui, sei passato per il Pronto Soccorso, te lo ha portato tuo figlio dopo il ricovero.
- Non mi confondo.
-Vero, non ti confondi, ti aiuto a cercarli questi maledetti libri.
Il materiale spoglio della stanza non nasconde nulla, soprattutto la mia pietà e nella classifica provvisoria lui è al primo posto, non so nemmeno io perché. Forse perché è un giorno nuvoloso e anonimo e quell’uomo somiglia troppo a mio fratello.
Spengo la tv, inutile tenerla tutto il giorno accesa, mi sono accorto che non la guarda, non riesce a stare concentrato nemmeno un minuto e allora applico una limitazione volontaria a trasmissioni televisive che per lui sono solo un rumore.
- L’orologio, non trovo l’orologio. E sposta la vista su tutt’e due i polsi, pure sul mio, anche se di me si fida, ma dimentica tutto, pure che si stava fidando.
- I figli devono farsi gli affari loro, perché mi hanno portato qui? - Urla improvvisamente accecato di rabbia.
Ha un astio scientifico per il figlio che cadaverico piange fuori della stanza per non farsi brutalizzare.
Osservarlo e ascoltarlo è pure per me un’esperienza straziante e la prova che l’età adulta può essere un inferno.
Nel pomeriggio arriva Il volto stanco di mia moglie che prova a non apparire stanco mentre mi prepara un panino. Il corridoio comincia a imbottirsi di visitatori. Adesso piove forte e cercano tutti riparo.
In ginocchio è quando preghi qualcuno e io devo ancora decidermi chi pregare.
Ho una pietà infinita per tutta questa gente nelle stanze del reparto, la maggior parte non ha la forza di alzarsi né di camminare, ci sono malattie che colpiscono soprattutto il movimento e che non danno speranza di guarigione.
Quando lascerò questo posto non lascerò loro, abbandonarli sarebbe come spogliarmi degli abiti che porto, sarebbe come togliermi questo pigiama, accartocciarlo nel mio borsone e andarmene in giro nudo.
Di tanto in tanto ricevo un calcio dalla mia coscienza e questa mi sembra una pena troppo piccola di fronte a tanta sofferenza .
Ancora riesco a sorridere a chi mi fa un prelievo, ma debolmente, barcolla pure il mio sorriso.
Mi vergogno, mi sento come quando prendevo una sbronza a una festa in famiglia e provavo a nasconderla senza riuscirci.
All’inizio il paesaggio fuori appariva come poco interessante, ora ho lo sguardo fisso su quella finestra sigillata sul buio, e metterei tutto in uno scatolone, alberi e prato per portarli via con me.
Nemmeno si stupirebbero di sparire da quel panorama convintissimi di andare in qualche posto migliore, la loro vita qui è dolorosa e deludente..
La voce del dottore di turno è come una canzone vecchiotta e ripetitiva di un juke box con altoparlante spaesato. Pieno di raucedine il dottore è sveglio dalla sera prima. Lo ascolto parlarmi con il mio nuovo nome: ‘trentadue’, il numero del letto appena rifatto. Sono qui da parecchio, devono avermi preso in simpatia, spero sempre di non essere malato davvero. Domani proverò a uscire, non mi fa male un mignolo perché devo stare sempre qui dentro? Non sarà complicato mischiarsi alla gente che frequenta gli ambulatori al piano terra, e ci sono pure un paio di bar molto forniti.
Sono in tuta e fuori di qui sono tutti vestiti come me essendo un punto verde del quartiere.
Mi tocca daccapo scoprire la mia esistenza, questa è la sensazione che ho.
All’improvviso sembra che qualcuno incavolato mi prenda a sassate, pioggia mista a grandine mi piomba addosso.
Ora i miei abiti bagnati possono certificare che le fissazioni di Pietro fossero vere, e che una mezza polmonite mi inseguirà nel lungo corridoio del reparto di neurologia, sobrio con le sue variazioni di bianco e di blu.
Mi cambio in fretta, nell’armadietto ho abbastanza tute da poter passare la mia vita qui.
Ho voglia di qualcosa di caldo, riscendo al bar e compro pure il giornale.
Il profumo di caffè e l’aspetto giovane dei tirocinanti mi tirano su il morale.
Mi fermo a riposare le gambe nella chiesetta dell’ospedale sempre aperta e sempre senza nessuno dentro. C’è profumo di incenso e non si rischia di perdere l’orientamento per come è minuta.
Passa parecchio tempo.
Mi dispiace solo non poterlo raccontare questo teatro patologico, ma non smetterò mai di ricordarlo, me lo porterò dietro a lungo con tanta amarezza e poca felicità, tipo il mio servizio militare.
Per riempire la mia vita di emozioni arriva ansimando un’infermiera.
Ha sempre fatto di tutto per risultare sgradita, e sta cercando di farmi preoccupare.
- Ma dov’era? Sono due ore che la cerco.
- Perché?
- Il dottore le deve parlare.