Ventotto.
Quello era il valore delle notti insonni e i pasti a caso, delle lacrime sui libri e i litigi con le amiche per dare il primo esame al primo appello.
Uscii dall’aula in silenzio e a testa bassa.
«Ehi. Poteva anche dartelo, il trenta!»
Un ragazzo dal fisico palestrato aveva dato voce ai miei pensieri. Lo guardai di traverso e alzai le spalle.
Intanto pioveva, così l’umore era grigio sia fuori che dentro di me. Ferma davanti al portone valutavo se aspettare che finisse, quando fui raggiunta dal ragazzo.
«Posso accompagnarti?»
Aveva un ombrello enorme con un logo sconosciuto. La ditta di papà, immaginai, quello che gli pagava la giacchetta di montone e la sciarpa di cachemire.
«Va bene.»
Mi strinsi nel piumino comprato dai cinesi e partii, lasciandolo avvicinare senza dargli una gomitata sulle costole. La scusa per rispondere a monosillabi ai suoi tentativi di imbastire un discorso me lo diede il ticchettare rumoroso delle gocce sulla tela.
All’improvviso la pioggia aumentò di intensità, obbligandoci a cercare riparo di corsa in un bar. Non era un posto per studentesse sfigate come me. I tavolini lucidi sembravano piuttosto l’ambiente in cui Gianmattia, quello il suo nome, si muoveva a proprio agio.
Restai vicina all’ingresso, asciugando con la mano la borsa a tracolla e osservando sconsolata l’acquazzone. «Non prendo niente,» dissi prevenendo la domanda.
«Offro io.»
«Guarda che non ti conviene, non mangio decentemente da giorni.»
Ma un tuono seguito da un forte scroscio mi fece capire che sarei rimasta bloccata lì ancora per molto; a quel punto accettai senza altri complimenti.
Presi una brioche salata con bresaola, un tramezzino ai gamberetti e un succo di frutta di marca, poi un cornetto di pasticceria, un cappuccino con latte di mandorla e un bignè mignon.
Gianmattia mi guardava divertito mentre consumavo il bottino. «Posso sapere il tuo nome, adesso?»
Pensai che se lo fosse meritato. «Annarita.»
«Festeggi sempre così dopo gli esami?»
Alzai le spalle. «È il primo.»
«Wow! Bel colpo.»
Non stetti lì a spiegare che i miei si aspettavano una partenza coi fiocchi, magari con lode. Mormorai in segno di assenso e assaporai il cappuccino.
«Mi ricordi molto Ramona Flowers.»
«E chi è?»
«Un personaggio di Scott Pilgrim.»
Ne sapevo quanto prima.
Gianmattia si mise a digitare sullo smartphone e me lo passò. Un lampo illuminò la vetrina del bar, seguito da un forte tuono; non era un bel presagio. Ero pronta a vedere la foto di una pornostar, o peggio una fotocazzo. Invece mi mostrò un cartone animato: una ragazza di proporzioni stranamente normali, senza un centimetro di pelle scoperta, il cui unico segno distintivo erano i capelli bicolori.
Cercai di rimanere impassibile. «Perché lo pensi?»
«Per come ti vesti.»
«Sì, ci sta.» Istintivamente abbassai l’orlo degli shorts sui legging.
«Ti andrebbe di guardare la serie?»
Lo osservai negli occhi cercando conferma dei sottintesi, che io dovessi pagare pegno per tutto quello che stava facendo di carino per me. «Ho altri pensieri.»
Ammiccò. «Se mi dai il tuo numero ti passo il link della serie.»
Tenevo ancora il suo smartphone in mano. Vidi che aveva Telegram, con diversi messaggi non ancora letti, e aggiunsi il mio contatto. «Non mi spammare!»
Ridacchiò, leggendo il mio nickname. «Posso chiamarti Annaraita?»
«No. Piuttosto, accompagnami alla stazione che ha quasi smesso.»
Ci salutammo ai tornelli, senza baci né strette di mano. Poi mi mandò il link alla serie di Netflix.
In treno rimuginavo su cosa dire ai miei. Non sapevano nemmeno che avessi l’esame, per cui avrei potuto anche tacere e aspettare il primo trenta. Solo che non avevo in programma di dare un altro semestrale in quella sessione. Che cosa avrebbero pensato di me, se non portavo a casa un voto? Che ero svogliata, o pensavo di essere in vacanza?
«Non mi rifiuterà un ventotto, vero, signorina?»
Mi ero sentita letta nel pensiero. Avevo accettato, intimorita dalla reazione del professore.
Invece avrei dovuto avere più coraggio e ritentare l’esame al secondo appello. Ma il prof si sarebbe ricordato di me, che avevo rifiutato il ventotto? Come avrebbe reagito, rivedendomi?
Insomma, la mia testa era un casino e avevo bisogno di rimetterla in ordine. Scartate tutte le amiche con cui avevo litigato, mi rimase una sola telefonata da fare.
Ivan mi venne a prendere alla stazione. Gli avevo accennato dell’esame e di Gianmattia, e anche che non avevo l’ombrello. Lungo il tragitto mi strinsi fiduciosa a lui, una delle poche persone in grado di darmi calore umano.
Soli in casa, e con la scusa che eravamo bagnati, si avvicinò per riscuotere subito il pegno delle sue attenzioni. Avrei preferito di no, visto che tra le altre cose dovevamo parlare di Gianmattia, ma non mi tirai indietro. Non ho mai capito se il nostro fosse sesso o fare l’amore, però lo facevamo anche se non c’eravamo mai messi insieme. Forse mi andava bene così, perché poi con lui potevo discutere di qualsiasi cosa, persino di ragazzi.
Ancora avvolta nel plaid sollevai la tapparella, sperando che non avesse smesso di piovere. «Accidenti, viene giù bene!»
Venne a controllare anche lui. «Che facciamo?»
In quel momento non mi andava di parlare dell’esame. «Maratona Netflix?»
Rise. «Lo sapevo! Scott Pilgrim, immagino.»
Feci l’occhiolino.
«Non riesci a toglierti dalla testa quel fighetto, eh? Giansilvio?»
«Gianmattia!» risposi con una smorfia. Ma in realtà pensavo alla ragazza animata che mi aveva mostrato e a cosa si aspettasse dopo avermi paragonata a lei.
Alla fine del primo episodio sentivo già un senso di disagio, che mi rimbombava dentro come i tuoni delle nuvole nere in lontananza. A metà serie lo buttai fuori. «Non sarò mai come lei!»
«Ramona Flowers, dici?»
«È così sicura di sé. Io invece sono una povera sfigata.»
Ivan ridacchiò in modo fastidioso. «Ma cosa dici?»
«Non so mai qual è la cosa giusta da fare o da dire. Ho già sbagliato al primo esame. Mi sono messa nei casini con i miei. Ho iniziato male la mia carriera universitaria. Devo continuare?»
«E cosa ti fa pensare che non sia una sfigata pure lei?»
«Ma scherzi? Sa sempre quello che vuole e lotta per ottenerlo!»
«Però da quando si era trasferita a Toronto non aveva ancora nessun amico. Non è strano?»
Alzai le spalle. «Se lo dici tu…»
«E poi cambia sempre il colore dei capelli. È un segnale di forte insicurezza.»
«Questa è una cazzata, dai.» Lo colpii con un cuscino.
«Ma è vero!» Mi colpì a sua volta.
«Non mi convinci!»
Finimmo per fare la lotta, inamovibili dalle proprie idee. Alla fine attirammo l’attenzione dei suoi.
«Ti fermi per cena?» mi chiese la madre.
«No, grazie.»
«Ormai si è abituata a mangiare caviale e champagne,» commentò Ivan.
«Non è vero!» sottolineai con una cuscinata. «Voglio solo tornare a casa presto.»
Ma, prima di salutarci, ci tenne a dirmi sottovoce: «Scommettiamo che il fighetto non ti ha ancora scritto?»
In effetti era vero. In treno controllai la nostra chat di Telegram e trovai solo i due messaggi del mattino. Del resto ero stata io a dirgli di non spammare, quindi forse era colpa mia se avevo sprecato anche quella occasione. Cioè, non di mettermi con lui, non ci pensavo neanche; però di allargare la prospettiva delle mie amicizie, quello sì. Invece all’orizzonte non c’era nulla, solo nuvole e neanche un arcobaleno.
Provai lo stesso a condividere una riflessione con lui. “Il titolo è sbagliato.”
Chissà quando avrebbe risposto? Magari era impegnato con la sua ragazza. Che, vedendo la notifica, gli avrebbe chiesto: Chi è Annaraita? E lui: Una matricola sfigata a cui ho pagato la colazione stamattina per carità cristiana. Era così affamata, poverina. La prossima volta la invitiamo e le offriamo caviale e champagne. E via così.
Invece rispose subito. “Di cosa?”
Digitai sorridendo. “La serie dovrebbe chiamarsi Ramona Flowers e non Scott Pilgrim.”
“Perché?”
“Lui sparisce subito e la serie continua raccontando la vita di Ramona. Fa sempre tutto lei. Non sei d’accordo?”
“Forse. Però lei cerca Scott, quindi gli episodi girano intorno a lui, no?”
Sbuffai, cercando di trovare una risposta valida per sostenere la mia idea. “Ma tu che cosa proveresti se fossi protagonista indiscutibile e la tua storia si chiamasse con il nome di qualcun altro?” Inviai, soddisfatta.
“Dai, è solo un cartone animato, non farti troppe storie.”
Il fatto che stesse minimizzando in quel modo non mi andò giù e mi saltarono i nervi. “Sai cosa? Forse hai ragione. Mi faccio troppe storie sui miei, sulle amiche, sugli esami. E non sarò mai come Ramona Flowers, quindi mettitela via!”
In realtà le ultime tre parole le cancellai prima di inviare. Non mi sembrava giusto riversare su di lui la mia rabbia, solo che il messaggio assunse un tono diverso.
“Ma guarda che vai bene così, anche se non sei come lei.”
Ok. Sì. “Grazie!” per la concessione, mister Ovvietà.
Misi via il telefono e sbuffai. Mi resi conto però di una cosa: per quanti sforzi facessi, anche la mia vita aveva il titolo sbagliato. Insomma, qualcosa in comune con Ramona Flowers l’avevo trovata, oltre al modo di vestire. Guardai il mio riflesso sul vetro e provai a immaginarmi con i capelli bicolori.
Come faccio a essere come te?
La mia immagine alzò le spalle.
Sulla strada di casa decisi che era il momento di chiamare i miei.
«Stamattina ho dato il primo esame. Sì. Volevo dirvelo quando tornavo a casa ma non ho resistito. Grazie.» Fin qui ero tutta eccitata.
«Ventotto.» Mi morsi il labbro.
Partì la ramanzina. Più o meno nei termini che immaginavo.
Mi venne su il magone e non riuscii a trattenere le lacrime. Cercai comunque di mascherare i singhiozzi al telefono. Mi appoggiai al muro perché non mi reggevano più le gambe.
Minacciarono di togliermi anche quel minimo di paghetta, che non avrebbero rinnovato l’affitto della camera e mi avrebbero trasferito di università. Mi fecero sentire in colpa per un ventotto. E poi, quando alla fine mi avevano buttato il morale sotto terra e calpestato bene, mi riempirono di coccole e rassicurazioni. Come facevano sempre, e io alla fine dovevo pure ringraziare.
Finita la telefonata, raccolsi i pezzi di me stessa e mi risistemai al meglio possibile, asciugandomi il viso con i palmi delle mani. Nessuno voleva credere che i miei fossero così, perciò mandai giù tutto il magone da sola, ricostruii la corazza di pietra intorno al cuore e ricominciai a camminare.
Una luna pallida si intuiva tra i palazzi e le nuvole che si diradavano. Stretta nel mio piumino lucido, l’umidità mi entrava comunque nelle ossa attraverso i legging del discount. Le automobili e gli autobus facevano il rumore caratteristico delle gomme sull’asfalto bagnato.
Dalla vetrina di un parrucchiere vidi una ragazza, poco più grande di me, che si stava decolorando i capelli. Altre ragazze aspettavano il verde per attraversare l’incrocio con i roller. Un uomo da un portone chiamò «Ramona!» e una ragazzina tornò di corsa a recuperare qualcosa.
«Universo, non mi freghi!» mormorai tra me. Però pensai: che cosa avrebbe fatto Ramona Flowers per fare pace con le coinquiline e rientrare a casa serena? La risposta era semplice: non ci avrebbe litigato. Ma se fosse?
Ero arrivata all’angolo del kebabbaro. Avevo ancora in tasca il bigliettino con l’ultimo ordine che avevo raccolto io. Incrociai le dita che portare su la cena fosse una buona idea.
Aprii la porta e nessuna mi salutò.
«Ho portato i kebab.»
Una sedia strisciò sul pavimento. Caterina arrivò saltellando sulle punte e sbirciò nel sacchetto. Mi sorrise.
Ricambiai. «Scusami.»
Arricciò il naso. «Ok, perdonata.» Poi urlò verso la cucina. «Gente, liberate la tavola che si mangia!»
Roberta, appena mi vide, mi mise le braccia al collo senza bisogno che ci dicessimo nulla.
Nadia, la mia compagna di stanza, restò con l’espressione seria, forse temeva che avessi “corretto” anche quella volta il suo ordine. Poi, quando aprì il cartoccio, lanciò un gridolino di sorpresa. «Wow! Con la cipolla?»
«Abbondante.»
Mi mandò un bacio, soffiando sulla punta delle dita. «E tu?»
Caterina sbirciò il mio kebab e fece un’espressione disgustata. «Cipolla abbondante anche qui. Io non ci entro più in camera vostra, sappiatelo.»
«E chi ti vuole,» ribatté Nadia. «Vero, Annari’?»
Scossi la testa sorridendo, commossa che almeno una cosa quel giorno mi fosse girata bene.