Dicono che poco prima di morire si riveda il film della propria vita.
Bastano pochi secondi, un minuto al massimo, per concentrare in pochi fotogrammi un’intera esistenza. Mentre l’aereo continua a perdere quota e affondo le unghie nelle cosce, rivivo il primo giorno di scuola, il viaggio di nozze alle Hawaii, la nascita del mio primo figlio. E sopra ogni cosa ripenso a mio fratello.
Non è la prima occasione che mi capita un vuoto d’aria, sono anni che volo, ma questa volta sembra diverso: ho come la sensazione che l’aereo stia scendendo in verticale. Cerco di nascondere la tensione dietro un sorriso di circostanza, ma sento comunque la mascella e tutti i muscoli del corpo contrarsi, irrigiditi in una sorta di meccanismo di difesa. E poi quale sicurezza posso mai infondere nei passeggeri? Le luci si sono spente, alcuni bagagli sono scivolati fuori dagli alloggi per schiantarsi sul pavimento e molti già urlano in preda al panico.
L’aereo vibra, si scuote, pare debba spezzarsi da un momento all’altro, ma so che non succederà, questi moderni giganti alati sono fatti per resistere alle pressioni più violente. Il fatto è che stiamo ancora precipitando, mentre avremmo già dovuto dominare il vuoto d’aria e riprendere quota.
Rivedo mio padre davanti agli occhi. È lui che mi ha trasmesso la passione per il volo e le grandi altezze. Forse è per quello che ho deciso di frequentare la scuola di formazione degli assistenti di volo.
All’improvviso è come se mi si bloccasse il respiro; spalanco la bocca e succhio quanta più aria possibile, alzando le braccia al cielo. Mi calmo.
Avevo dieci anni la prima volta che ho volato; lo ricordo bene perché avevo dato da poco gli esami di quinta elementare. Ero stata promossa e come premio non avevo chiesto una bambola, né un paio di pattini e neppure una bicicletta nuova. Mamma aveva paura degli aeroplani, diceva che non sarebbe salita su quelle trappole volanti neppure morta. Difatti, nelle poche vacanze fatte in famiglia, ci eravamo sempre spostati in auto oppure in treno.
Una volta avevamo affittato pure un camper, quando mamma si era messa in testa di visitare il sud della Francia. Papà invece era una sorta di creatura mitologica, mezzo uomo e mezzo volatile.
Come istruttore di volo, insegnava ad allievi con la sua stessa passione come cavarsela lassù tra le nuvole e spesso veniva contattato anche dal centro di paracadutismo locale per accompagnare i clienti negli spazi di lancio.
In sostanza passava molto più tempo in aria che a casa con noi, per cui morivo dalla voglia di sapere cosa ci fosse di così eccitante nello stare col sedere per aria.
Quando me ne sono uscita col desiderio di fare un volo con papà, mamma ha strabuzzato gli occhi e ha iniziato a sclerare.
«Lisa, ma che dici, sei diventata matta? Non se ne parla neanche!»
«Scusa, perché non posso?»
«Come perché? È pericoloso, sopra a quel trabiccolo…»
«Pericoloso? Ma papà ci lavora sull’aeroplano ed è ancora qui con noi, mi sembra.»
«Marta, dai, la piccola a ragione. Non c’è nessun pericolo. Le statistiche dicono che…»
«Lo so quello che dicono le statistiche, ci sono più possibilità di avere un incidente in macchina che in aeroplano. Come faccio a dimenticarlo, se non perdi occasione di ricordarmelo ogni maledetta volta?»
La voce di mamma era diventata stridula e sgraziata, a testimonianza che era prossima a una crisi di pianto. Così mio padre si era alzato da tavola e le si era avvicinato con l’intento di consolarla, ma lei aveva giocato d’anticipo, sbattendo il tovagliolo nel piatto.
«Ne ho già perso uno di figlio e non voglio perdere anche lei. È così difficile da capire? Proprio non ci arrivi, eh?»
Guardai il mio papà, i pugni stretti e gli occhi che stavano diventando lucidi.
Lui se ne accorse e, dopo avermi regalato un sorriso, trasformò uno di quei pugni in una carezza.
«Su, finisci di mangiare, ci penso io a convincerla.»
Osservai il tovagliolo di mamma affogare nel sugo della carne alla pizzaiola e pensai al mio fratellino di cinque anni che non c’era più. Non era stata una sciagura aerea a portarcelo via e neppure un incidente stradale, ma la stupida puntura di un’ape mentre rincorreva un pallone sopra un prato.
Li sentii discutere a voce alta per diversi minuti, poi mi rifugiai in camera.
Alla fine la spuntammo io e papà, anche se mamma ci tenne il muso per diversi giorni. La notte prima del volo non chiusi occhio, rigirandomi senza sosta nel letto, eccitata per l’esperienza che avrei fatto. Papà mi aveva raccontato che stare su nel cielo era la cosa più bella del mondo, regalava un senso di libertà unico.
Quando finalmente raggiungemmo l’aeroporto e papà mi aiutò a salire sul piccolo aereo a due posti, sentii le gambe cedere per un attimo. Ripensai alle parole della mamma: com’è che l’aveva chiamato? Trabiccolo? In effetti è proprio quello che sembrava, un trabiccolo inaffidabile. Fui quasi sul punto di rinunciare, però poi mi feci coraggio. Mi fidavo del mio papà e il solo osservarlo mi rasserenò. Mentre trafficava con gli strumenti di bordo e la radio sembrava felice come un bambino, situazione che a casa si verificava di rado. C’erano state molte discussioni con la mamma, con lei che lo supplicava di cercarsi un altro lavoro, ma come poteva accontentarla?
Volare era la sua vita, non sapeva e non voleva fare altro.
Al momento della partenza provai un po' di paura, con un senso di vuoto allo stomaco mentre l’apparecchio si alzava da terra, ma ogni disagio scomparve quando prendemmo quota. Com’erano piccole le case da lassù! E anche gli alberi, le auto, le strade. Ogni cosa assomigliava ai soprammobili che nonna Teresa teneva nella vetrinetta del salotto.
«È tutto più bello da quassù, vero?»
«È splendido, papà.»
«Lisa, guarda, quella è casa nostra.»
Seguii il suo dito. «Dici davvero?»
«Certo. Non vedi lì in strada? La Ritmo verde ramarro della mamma, solo lei ce l’ha di quel colore in città.»
Scoppiai a ridere e lui fece lo stesso.
Provai un benefico senso di calore al petto: era da parecchio che a casa non lo vedevo così sereno e felice.
«Papà?»
«Dimmi.»
«Tu e la mamma…»
«Cosa?»
«Non so, litigate spesso. I genitori di una mia compagna di classe si sono lasciati e adesso lei vede suo papà solo un paio di…»
«Hei, piccola, non fare questi pensieri. Io e la mamma ci vogliamo bene, capito?»
Feci segno di sì con la testa.
«Dico davvero. Le cose sono cambiate un bel po' dopo quello che è successo a tuo fratello, però bisogna andare avanti. Tutti e tre insieme.»
Quelle parole mi rincuorarono.
Poi mi scappò la domanda. Era parecchio tempo che mi girava per la testa, ma non avevo mai trovato il coraggio di farla.
«Dove finiscono le persone dopo che sono morte?»
Aspettò un po' prima di rispondermi, sempre guardando dritto davanti a sé.
«Mi piace pensare che si trovino qui, in cielo. Non esiste un luogo più bello di questo, non credi?»
«Anche Diego?»
Si girò a guardarmi. «Certo, anche tuo fratello.»
Fu allora che l’aereo cominciò a oscillare.
«Non preoccuparti, tesoro. È solo una piccola turbolenza, ora scendiamo.»
Chiusi gli occhi e spalancai la bocca. Facevo fatica a respirare.
«Cos’hai piccola?»
Succhiai il più possibile aria e alzai istintivamente le braccia, toccando il tettuccio dell’aereo. Istintivamente girai la testa a destra e lo vidi: Diego, seduto sopra l’ala, si stava sporgendo verso il basso e mi stava salutando.
Risposi al saluto e in quel momento il mio respiro tornò normale.
«Lisa, cos’hai. Stai bene?»
«Sì, papà, sto bene. Lo hai visto anche tu?»
«Visto cosa?»
Sorrisi e poi scossi la testa.
«Niente.»
«Credo che come primo volo possa bastare così. Che dici?»
Guardai il mio papà e gli diedi un sonoro bacio sulla guancia.
«Va bene. Torniamo a casa dalla mamma.»
Finalmente l’aereo comincia a riprendere quota.
È ricomparsa anche la luce. Dall’interfono il comandante rassicura i passeggeri che ogni cosa è tornata alla normalità.
Si è trattato solo di un brutto vuoto d’aria.
Mi slaccio la cintura e vado a informarmi se i viaggiatori necessitano di qualcosa. Chiedono un po' d’acqua, qualcuno del caffè. Sui loro volti è dipinta un’estenuata espressione di sollievo.
Quando ho servito tutti quelli del mio settore mi fermo a metà del corridoio.
Non succede sempre, ma abbastanza spesso.
Mio padre mi ha trasmesso la passione per il volo, ma il vero motivo per cui ho deciso di farlo diventare il mio lavoro è un altro.
Mi sporgo tra una fila di sedili liberi e osservo l’ala fuori dall’oblò. Appoggio la mano al vetro e lo saluto.
«Che c’è Lisa?»
La voce del collega ricorda un po' quella di mio padre.
Gli sorrido e scuoto la testa.
«Niente.»