Faccio la borseggiatrice davanti al Colosseo, a piazza S. Pietro, oppure dove capita. Non si direbbe, perché sembro una ragazza come tante. Non sono come le altre che vanno in giro con le coperte sopra il braccio per nascondere la mano che ruba. Sono rimaste antiche e danno troppo nell’occhio. Al campo mi chiamano la Miss, perché ci tengo ad apparire per quella che non sono. Stiro finanche i vestiti, prima di indossarli. Dentro a quello schifo di roulotte siamo in cinque, padre, quando c’è, madre, nonna e fratello, e una sedia libera dove poggiarli non la trovo nemmeno a pagarla oro. Ma quasi sempre sto in tuta, con scarpe abbinate, zaino tarocco e alla moda. I capelli li porto corti per colpa di mia nonna perché, se sono lunghi, me li tira e mi fa male quando li lega stretti, per paura che m’attaccano i pidocchi.
Mi alzo alle sei e, se non vado a rubare, vado a scuola.
“Ma a che ti serve? Per andare a lavorare ti bastano gli occhi buoni e le mani svelte. Vi insegnano questo in classe?” mia madre me lo dice tutti i giorni. Vabbè, sono ripetente, allora? Ma io questa vita di merda mica la voglio fare per sempre.
All’istituto don Bosco ci insegnano un mestiere. Io voglio fare la parrucchiera, mi piace toccare i capelli profumati e morbidi di balsamo, fare la piega con il fon, imparare il taglio. Facciamo le tinte con i colori più strani, lilla, verde, la mia è blu e i colpi di sole che danno luce.
Rubo perché a casa mia lo fanno tutti, come quando fai l’avvocato perché tuo padre ha lo studio avviato, oppure il medico perché tua zia ha la clinica. Per tradizione di famiglia. Ma io faccio da sola, perché sono brava e non mi serve nessuno che mi guarda le spalle. È la mia tattica e do meno nell’occhio.
Mio padre entra ed esce da Rebibbia, a casa non ci riesce a stare più di tre mesi filati, quando torna beve e picchia mia madre. Lei si difende, e urla incazzata: “Mica voglio morire sotto le mani tue.”
Io chiudo gli occhi per non sentirli e Stinco, per la paura, mette la testa sotto la stufa. Stinco di Santo è il suo nome per intero e, non c’è verso, ma lui proprio non ci riesce a fregare il prossimo, né gli uomini, né i cani come lui. Se vede un osso, o gli tirano un pezzo di carne, pure se ha fame lo lascia agli altri. Per me così fanno i santi che pensano prima a tutti e poi a loro stessi.
Continuano a litigare e a darsele fino a quando torna Joska, mio fratello, e dice: “Piantatela che ho sonno.”
La mattina dopo, vengono le guardie e se lo portano via. Per me questa è una tattica di mio padre per stare lontano da mia madre.
Al don Bosco leggiamo le poesie. All’inizio non le capivo, veramente anche adesso, allora ho pensato che pure io posso scriverle e se non si capiscono, non importa, vuol dire che ho fatto un buon lavoro. La professoressa di italiano, che come c’è capitata nella mia scuola solo lei lo sa, mi dice: “Drina, sei brava, devi solo impegnarti di più. Hai un animo sensibile, attento alle cose che succedono intorno a te.” E ci credo, vorrei rispondere, con il lavoro che faccio, ma poi sto zitta e lascio parlare lei, mentre quei quattro buzzurri dei compagni si lanciano scarpe e astucci senza colori.
“Attraverso la scrittura possiamo tirare fuori i nostri sentimenti, sciogliere l’animo dalle costrizioni, liberare la fantasia, diventare quello che non siamo, vivere non una, ma infinite vite. Perché scrivere è catartico, proprio come la pioggia. Condividiamo le stesse lacrime del cielo, diventiamo noi stessi aghi di acqua costretti a infrangerci al suolo, per lo stesso inevitabile destino.”
Sarà una sfigata la mia prof. ma quanto parla bene.
Non sempre la capisco, ma lei non molla, mi regala libri, non tanto grossi, lo sa da sé che non ho tempo. Io sono contenta perché con lei posso chiacchierare di certe cose, senza che mi prendono in giro. Ma poi che ne sanno gli altri? Al campo aspettano la merce e mio fratello se la rivende; in classe, o promossa o bocciata, basta fare numero così la scuola non chiude.
Ho cercato su internet catarsi perché una parola più strana di questa non l’ho mai sentita. Significa purificazione, e poco dopo c’era scritto: la funzione catartica e liberatoria della poesia. Eccola qua!
La poesia, allora, è come la pioggia, ci stai sotto e ti pulisce dentro e fuori.
Invece sono mesi che non piove, anche se è inverno. Fa un tempo sempre uguale, come se dal cielo non deve arrivare più niente. Mia nonna Esmeralda, che poi non è il suo nome, ma se la chiamo così è contenta, dice: “Dio si è stancato degli uomini. Se le stagioni non si alternano, la natura non ci capisce più un cazzo. Addio raccolto e moriamo tutti di fame”.
Stamattina faccio un patto col Padreterno: lui fa piovere e io faccio un’opera buona. Chissà se ci sta. Così mi porto dietro gli ombrelli, dentro uno zaino per non dare nell’occhio.
“Drina, sta attenta ai pakistani che, se gli pesti i piedi, ti gonfiano di botte,” mi avvisa Joska, mentre esco sbattendo la lamiera della roulotte.
E vabbè, allora? Mi piace rischiare e poi i turisti pagano quindici euro per un ombrello che manco lo guardi e già s’è rotto. Ed è la scusa buona per avvicinarmi senza farli insospettire.
Prendo l’autobus che mi porta ad Anagnina, la metro fino a Ottaviano, perché è domenica e monto a S. Pietro. La piazza si riempie quasi sempre, col caldo e col freddo, nella buona e nella cattiva stagione. Il Papa acchiappa sempre.
Appena arrivo seguo quelli senza ombrello, ne vendo due perché il cielo si sta facendo scuro, ma non mi faccio illusioni. Intanto rubo tre cellulari e un portafogli zeppo di carte di credito.
Mi colpisce, però, un tipo strano con uno zaino sulle spalle, ma si vede che non è un turista. Avrà l’età di mio padre e parla al cellulare, camminando senza andare da nessuna parte. Un attimo e il suo portafogli sta nelle mie mani. Sbircio dentro e ci trovo la patente, trentacinque euro e un santino di padre Pio. Mi sto allontanando, quando lo sento urlare: “Ma mi stai a sentire quando parlo!?”
Chi sta dall’altra parte gli ha chiuso il telefono in faccia, perché si è subito incupito. Proprio come il cielo che è diventato ancora più nero. Sembra notte alle dieci di mattina e inizia a venire giù tutta l’acqua che non ha fatto in tre mesi, tutta insieme. La gente si disperde e corre al riparo.
Qualcuno ride, è felice lo stesso, saltella da una pozzanghera all’altra, sopra i sampietrini lucidi, perché un turista è in vacanza anche sotto il diluvio.
Quello che prima urlava al telefono adesso mi chiama e io, invece di scappare, mi avvicino.
Sembra stupito, ma nemmeno troppo, di vedere che una ragazza normale vende ombrelli.
Ci ripariamo sotto i portici lungo la via larga da dove si vede la basilica. Gli porgo quello meno scalcagnato e lo vedo cercare nervosamente dentro lo zaino.
«Oddio, ho perso il portafogli!»
Ma come? Guarda che non l’hai perso, mi verrebbe da dirgli. Con gli occhiali appannati, il naso a punta e i riccioli neri appiccicati alla fronte, fa il contrario di quello che dovrebbe. Io al posto suo sarei incazzata come una iena: discute al telefono, sta diluviando, non ha un ombrello e non può nemmeno comprarlo perché non ha soldi.
Mi guarda con gli occhi neri sgranati che, non so in cosa, mi ricordano quelli di mio padre.
Piega la testa di lato, mentre cerca di ricordare quello che c’era dentro: «…la patente…ma tanto mi hanno sequestrato la macchina…e i soldi, poco meno di ottanta euro.»
Sì, beato te! Ricordi proprio male, ma mica posso dirglielo.
Comincia a piovere talmente forte che dobbiamo urlare per riuscire a sentire le parole.
«Te lo regalo, non fa niente,» mi stupisco io stessa quando lo dico.
Prima rifiuta, poi me lo prende dalle mani sedendosi sugli scalini di marmo sotto i portici. Mi metto vicino a lui, dopo tutto ha ancora il cellulare.
«Ti rendi conto?» inizia, «a undici anni si vuole fare un tatuaggio. Ma come si fa?»
Gira e rigira l’ombrello, ma secondo me non lo vede proprio.
«Non mi ascolta, per lei non conto niente, da quando vive con la madre è un casino. Ho cambiato anche lavoro, mi danno due lire e ho gli alimenti da pagare, ma non mi lamento, pur di stare vicino a lei. Allora dove sbaglio?»
Finalmente si ricorda di me, e mi chiede: «Avanti, dimmelo tu. Sarai poco più grande di mia figlia…»
Sì, proprio! Vado per i sedici. Sono i capelli corti che mi fanno più piccola. E intanto gli sfilo il cellulare dalla tasca. Ma questo non si accorge proprio di niente! E mi chiede: «Tu ci parli con tuo padre, vero?»
«Poco, è quasi sempre lontano per lavoro…»
«Che peccato, si perde gli anni migliori. Ma magari il vostro rapporto va bene così. A undici anni non gli hai chiesto un tatuaggio di Massimo Pericolo sopra una chiappa?!»
«Mi sembra di no…» e sento il suo telefonino vibrare.
Il cielo è ancora tutto nero, ma diluvia un po’ meno. Dal colonnato la gente si sporge, apre le mani per sentire il peso delle gocce.
Come dice la mia prof., la pioggia è stata catartica. Il cielo è ancora grigio, ma sembra tutto più pulito.
Con la coda dell’occhio leggo il messaggio ma non lo apro: “Hai ragione tu, pa’! A diciotto anni ne facciamo uno insieme. Tvb” con un cuore.
Sospiro e penso che va bene, la buona azione sta sotto i miei occhi.
Gli passo il cellulare, dicendo: «Ti è arrivato un messaggio.»
Lo legge e mi abbraccia.
Come un fulmine a ciel sereno, se ne esce: «Ma i tuoi genitori dove sono?»
Allora gli dico: «Ecco, adesso io vado e li raggiungo.»
Ci alziamo, ho i pantaloni bagnati e il culo gelato.
«Tieni, ha smesso di piovere, non mi serve più» e mi porge l’ombrello. «Prima di andare, però, mi faresti un favore? Mi allunghi cinque euro, giusto per il biglietto della metro e un litro di latte…» dice guardandomi dritto negli occhi.
Tiro fuori dieci euro, i suoi, e con la faccia da stronza glieli porgo: «Offro io.»
Sorride, e se li mette in tasca.
Penso che non lo rivedrò mai più e un poco mi dispiace. Avrei voluto farlo conoscere a Stinco, secondo me, gli sarebbe piaciuto.