La terra brucia sotto il sole di metà mattina. Mi rifiuto di guardare il cielo e soltanto lui sa quanto mi manca. Vorrei cercare uno spicchio d’ombra tra la bassa vegetazione e la terra puntellata di roccia bianca e rossa. La campagna è sterminata e ancora mi sembra di vedere i contadini che chini zappavano la terra e seminavano, arsi dal caldo e dissetati dal loro stesso sudore giorno dopo giorno, in attesa del raccolto.
Eppure l’ombra è vicina a me, vicinissima: arriva lenta, cala sul terreno dall’alto, prende velocità e quando mi raggiunge non è che una lama sottile che sfiora il mio corpo per una frazione di secondo, scomparendo di nuovo nel nulla. Non mi distraggo e la vedo ritornare, seguendola con la coda dell’occhio. Mi schiaffeggia e se ne va ancora. È sempre lì, mi tormenta. Segue un cerchio infernale e a furia di seguirla con lo sguardo pare, a tratti, rallentare: sono attento, riesco quasi ad afferrarla, ma anche questa volta, beffardamente, mi lascia e se ne va. Fuf – fuf – fuf. Strizzo gli occhi e ricomincio, ma non ce la faccio. Alzo la testa e con lei allargo il mio campo visivo. Lo spettacolo che vedo proprio non mi piace. Fuf – fuf – fuf.
Fuf, il canto debole delle cicale, fuf, il timido fischio del vento, fuf, l’odore delle greggi che non ci sono più. Gli uccelli migratori non tornano da un po’, perché non possono più volare liberamente; i cinghiali si sono spostati altrove, qui non ci sono più campi da razziare nottetempo. Soltanto i gechi sembrano curarsi del rumore, fuf-fuf-fuf, tanto da rispondere a tono con il loro verso strambo.
Certi pensieri non sono altro che nostalgia per un mondo che non esiste più. Era soltanto il mio mondo. Può sembrare facile retorica e non pretendo che tutti mi capiscano. Tuttavia, quando il luogo nel quale sei cresciuto, a spasso per i campi e i sentieri di campagna, col filo d’erba in bocca e il cappello di paglia, ti viene strappato con l’imposizione, il cuore ti si stringe. Piange il cielo terso, anche senza nuvole, il suo azzurro intenso sembra ritirarsi come il mare scosso da uno tsunami, quasi avesse vergogna, per ciò che è costretto a vedere sotto di lui. Fuf-fuf-fuf.
Il paesaggio mi risulta estraneo. Non mi sento più a casa. O forse sono io che non voglio starci. I ricordi non bastano per lenire il dolore che mi porto dentro. Penso sempre che non tutti la pensano come me, anche qui, a casa mia, ma credo che tutti noi dovremmo ribellarci a una decisione scellerata e antidemocratica presa in continente.
Energia? Io utilizzo la mia energia pulita, spontanea e genuina che scaturisce e trae forza da un’idea. L’energia più potente di tutte: mai dare per scontato che qualcosa sia veramente necessario e da farsi a tutti i costi. Chi me lo restituisce il cielo, i campi, il paesaggio? Insomma, qualcuno di estraneo è entrato a casa mia, si è seduto e ha anche messo i piedi sul tavolo.
Da queste parti la pioggia non si vede quasi mai. Non è un bene. Oggi, proprio a casua di questo tempo inclemente, ho preferito non andare al presidio. Andrò a trovare il nonno. Poveretto, ha un principio di Alzheimer. Inizia a raccontarmi della sua infanzia, trascorsa nella stessa terra che oggi stanno violentando. Continua per qualche minuto, poi si ferma. Guarda nel vuoto e appena si riprende mi dice: «Ah, non ti avevo visto arrivare!», e continua a raccontare esattamente da dove aveva interrotto.
Sono sempre le stesse cose: che da piccolo andava nei campi a piedi scalzi d’estate e d’inverno, che fino a sette anni non ha mai avuto i pantaloni lunghi e che il mio bisnonno gli dava sonori calci nel di dietro. Ci tiene sempre a precisare che il primo paio di scarpe lo ha avuto soltanto perché doveva fare la prima comunione.
Io sorrido e annuisco. Tra una frase e l’altra gli dico «Davvero?» oppure «Ma dai, non ci credo!». Sono sempre le stesse menate, ma per me è come ascoltarle la prima volta e lo faccio con grande piacere perché, nonostante la malattia, lo sento vicino. Capita che il nonno s’incanta ancora e guarda nel vuoto per qualche istante. Si ripiglia e dice, con tono concitato: «Ti stavo forse raccontando qualcosa?»
«Sì, nonno» ribatto «mi stavi dicendo di quella volta che siamo andati a pescare nel Rio Leni».
«Ah sì, una giornataccia!» esclama, perché quel giorno siamo tornati a mani vuote e non ne ha voluto più sapere di andare. Eppure mi ero tanto divertito nonostante la magra pesca. Ricordo che dalla sponda ho guardato il cielo per interminabili momenti immerso in un paesaggio incontaminato.
Devo confessare una cosa. A volte mi sento scorretto e fuori luogo. Perché? Perché in fin dei conti finisco sempre per coinvolgere il curvo vecchietto che ho davanti argomentando sulla mia causa. Come se ogni santa volta cercassi approvazione e consenso da parte sua. Non avrei bisogno di cercare approvazione e consenso né tantomeno pretenderla perché lui in fin dei conti la pensa come me. Dice soltanto: «Bastardi!» e lo ripete in continuazione.
Prima di andare via avrei voluto diglielo. Non ero sicuro che avesse approvato le mie intenzioni. O comunque, anche se l’avesse fatto, non volevo farlo preoccupare, né dargli pensieri negativi. Ci siamo salutati con il solito abbraccio. Poi, come sempre, mi ha preso il viso tra le sue mani ossute e rugose, sorridendo. Un sonoro schiaffo sulla guancia destra: «Guai a te se non ti comporti bene!»
«Nonno, ma io…»
«Lo so che sei un bravo ragazzo, ma questo era preventivo. Non si sa mai».
Quanto gli voglio bene.
Fuf-fuf-fuf. Anche nel buio pesto, non si fermano mai. Siamo vestiti con abiti mimetici e abbiamo la faccia dipinta di scuro. Ci siamo spalmati in faccia la cenere della legna bruciata per il barbecue al presidio. Nessuno sa quello che abbiamo intenzione di fare.
Siamo costretti a stare bassi nei prati. Nonostante l’erba alta potrebbero vederci. Per fortuna, anche se ne farei a meno, il fruscio dei nostri passi è coperto da altri suoni. Fuf-fuf-fuf. Ci fermiamo all’ultimo gruppo di piante basse a pochi metri dal sito dove sorgerà un nuovo impianto. Una pattuglia dei carabinieri sosta a pochi metri dal luogo dove sono adagiate le pale. Delle bestie lunghe trenta metri. Sono cadaveri. La Sardegna sarà la loro tomba. O la nostra.
Io e i miei compari ci scambiamo un ultimo cenno d’intesa. Io andrò all’estremo sinistro delle pale, ho la tanica più grossa perché devo fare in modo di danneggiare il più possibile la parte della pala da fissare in cima alla torre. Spero di creare un danno irreversibile. Fuf-fuf-fuf. Non lontano echeggia il roteare delle pale di un altro impianto. Vedo soltanto la lucetta rossa posta sulla sua sommità. Se ne sono andate anche le stelle.
L’orologio vibra, è il segnale.
Siamo già al sicuro, protetti dal buio, ostaggi delle nostre paure. Poco lontano, le fiamme sono alte e squarciano le tenebre. Fuf-fuf-fuf. Non si ferma mai. Forse ne abbiamo evitato un altro ma chissà per quanto. Queste maledette pale spuntano come funghi. Oggi non c’è niente, dopo una notte te ne trovi tre in più.
Mi sento decisamente meglio. Certo, se ci avessero beccati saremmo finiti in galera. Se ci penso ancora sento il viso rabbuiarsi, forse perché ciò che abbiamo fatto ieri notte avremmo dovuto farlo molto prima. E ora non ci sarebbe nemmeno una pala. Il cielo sgombro e libero di essere guardato e invidiato. Uccelli e animali, uomini, tutti a loro agio nel loro habitat naturale. E quel maledetto rumore sparito per sempre, anzi mai esistito nelle nostre orecchie poiché è stato soltanto un incubo dal quale ci siamo risvegliati indenni.
Nessuno sapeva niente eppure al presidio c’è aria di festa. Forse sono suggestionato ma mi sembra che tutti gli altri mi guardino con orgoglio. Certo, siamo entusiasti per il sabotaggio che qualcuno ha portato a termine con successo, quantomeno ritardando l’installazione di quell’impianto di qualche settimana. Questo è il problema.
Il vento soffia forte, più del solito. Poco lontano, quei mostri girano sempre più forte: fu-fu-fu. Tanti suoni come questo che si accumulano e ti entrano in testa, s’impossessano di te. Demoni. Dimonios. Quelli che abbiamo dentro.
Piove di nuovo.
Questa volta il nonno mi ha accolto con una schiaffo. Non mi ha sorpreso.
«Nonno!» esclamo, «questo non è preventivo».
Lui mi guarda serio: «Stavolta te lo sei meritato».
«Perché?»
«Perché certe cose non si fanno».
«Scusa?» rispondo cercando di dissimulare.
«Giovanotto! Credi che son nato ieri? Rincoglionito sì, ma stupido no!»
Non me la sono sentita di contraddirlo, aveva ragione. Condividere la mia stessa idea non vuole dire approvare condotte discutibili che utilizzano azioni illegali e volte al sabotaggio. Tuttavia, prima che s’incantasse come di consueto, vidi l’orgoglio dipinto sul suo volto, come se io avessi fatto qualcosa che lui non era stato in grado di fare. Avevo tentato di proteggere la mia terra, sotto il suo cielo meraviglioso e mi viene da piangere se penso che in certi tratti il paesaggio mobile e immobile è deturpato, violentato e deriso in nome della presunta transizione energetica.
«Trans cosa?» si ripiglia di colpo il nonno.
«Scusami, forse stavo parlando a voce alta» rispondo.
«No no, hai perfettamente ragione. Durante la guerra…»
«Dai nonno, ricominci con la solita storia di cent’anni fa?»
«Beh, non sono passati cent’anni ma poco ci manca. Comunque, sai quant’era bella la nostra terra? Ancor più di adesso. D’estate, di notte, il cielo era blu cobalto, tutto pieno di stelle. D’inverno, invece, nevicava».
Ho sorriso, con tre parole m’ha fatto venire le lacrime agli occhi.
«Ricorda» riprende portandosi l’indice alle labbra, «combatti sempre per sostenere le tue idee, soprattutto se le ritieni giuste. Non è detto che lo siano a priori, ma qualche volta, se lo sono, per ottenere ciò che è giusto bisogna fare anche un po’ di casino» conclude facendo l’occhiolino.
«Te la ricordi la strofa…» dice il nonno.
«Che pizza nonno, certo che me la ricordo!» rispondo allargando le braccia e sbuffando.
Semus istiga de cudd’antica zente
Ch’à s’innimigu
Frimmaiat su coru
Boh! boh!
Es nostra oe s’insigna
Pro s’onore de s’Italia
E de Sardigna
Dimonios. Quelli dentro.
Quanto gli voglio bene.