Non so cosa darei per una tazza di caffè fumante. Quello nel thermos è finito da un pezzo e nelle mie ossa sento ogni singola ora di volo.
Certo che, se non avessi deciso di decollare nel bel mezzo della notte, non avrei potuto assistere alla meraviglia di questo cielo che si veste della prima luce.
L’alba qui nel Pacifico è un tale spettacolo, che varrebbe la pena di starsene quassù solo per ammirarla. Sono bastati pochi attimi perché l’aria si accendesse di colori che sfumano dall’oro, al rosa, all’arancio, fino al rosso intenso. Li vedo riflessi in miriadi di scaglie nell’oceano sotto di me. Il rombo dei motori è la colonna sonora che mi fa compagnia da quando ho lasciato Lae, più di duemila miglia fa; non conosco musica più bella.
E pensare che non ricordo nemmeno quando è stata la prima volta in cui ho visto un biplano alzarsi in volo; forse ero ancora una bambina che correva nei prati del Kansas. Da allora ho sempre sognato di conquistare i cieli, anche se, quando lo raccontavo, i miei compagni mi prendevano in giro.
A volte i bambini sanno essere crudeli.
Ricordo bene, invece, lo scompiglio che causai in famiglia qualche anno dopo, quando decisi di tagliarmi i capelli per somigliare il più possibile a un aviatore. Veramente avevo già cominciato ad accorciarli di nascosto un poco per volta, nella speranza che in casa non se ne accorgessero. Ma, quando finalmente terminai di racimolare i soldi per il corso di volo, mi feci coraggio e li tagliai talmente tanto, che avrei potuto essere scambiata per un ragazzo.
«Amelia, ma come ti sei combinata?» furono le parole più gentili che mi rivolse mia madre.
«Adesso molte donne li portano corti», tentai di giustificarmi. «E poi sono più pratici», soprattutto se ci si deve infilare in testa un casco da aviatore. Ma questa osservazione la tenni per me.
Se avessi dato ascolto a tutti quelli che mi dicevano che era un’impresa impossibile, non avrei mai pilotato un aereo.
Allora anche mia madre considerava con sufficienza il mio sogno e sperava ancora di riuscire a fare di me e di mia sorella Muriel delle “donne rispettabili”, ma quando vide che, non solo cominciai a frequentare davvero il corso per piloti, ma lo superai pure brillantemente, prese la saggia decisione di non ostacolarmi più.
Anzi, fu grazie a lei che un anno dopo riuscii ad acquistare il mio primo monoplano, un vero e proprio gioiellino. Il suo colore giallo gli valse l’appellativo di “Canarino”. Mi è sempre piaciuto dare un nome tutto mio agli aerei che piloto, proprio come facevo da bambina con i cavalli che montavo.
Da allora, quando non sono in volo, il mio viso è perennemente sollevato verso il cielo, intento a scrutarne ogni minima variazione: nubi dense o soffici come panna montata o anche una semplice increspatura nell’azzurro sono fonte di valutazioni e di calcoli sulla direzione e sull’intensità del vento, che però quasi mai riescono a tenermi a terra.
Molti mi giudicano temeraria e forse hanno ragione, ma solo in cielo mi sono sempre sentita veramente a casa.
Il sole ormai è sorto e fra non molto dovrei avvistare l’isola di Howland. Provo a mettermi in contatto con la nave della Guardia Costiera che mi fa da supporto.
«Itasca, qui King-How-Able-Queen-Queen, mi sentite?»
«King-How-Able-Queen-Queen, qui Itasca, vi sentiamo forte e chiaro. Vi segnaliamo condizioni meteo in peggioramento intorno all’isola.»
«Ricevuto Itasca. Riprenderò a trasmettere nell’orario prestabilito. Per allora dovrei essere in vista dell’obiettivo.»
Speravo che il cielo sereno mi avrebbe accompagnata fino alla prossima tappa e invece troverò ad aspettarmi il maltempo. Non mi preoccupa tanto il peggioramento del meteo, in realtà, quanto il rischio che le nubi troppo basse mi impediscano di avvistare l’isola e soprattutto la pista.
Proprio come cinque anni fa, quando col mio “Little Red Bus”, un Lockheed Vega monomotore, per colpa del maltempo sono stata costretta a ricorrere a un atterraggio di fortuna in un campo vicino a Londonderry.
Peccato, però, che tutti mi stessero aspettando a Parigi.
Quello fu di gran lunga il viaggio più emozionante della mia vita. E non solo perché fui la prima donna pilota ad attraversare l’Atlantico in solitaria.
In realtà, in pochi credevano che ce l’avrei fatta.
Ricordo che perfino George mi disse: «Cara, che senso ha attraversare di nuovo l’Oceano Atlantico? È un’impresa già brillantemente superata da Lindberg, cinque anni fa».
«Non mi importa, non è per la fama che voglio affrontare questo volo da sola», gli risposi. «Sei mio marito e dovresti conoscermi bene: volare mi permette di muovermi nel cielo in tre dimensioni, non c’è nient’altro che mi dia la stessa sensazione. Riesco a sentire la vita scorrermi dentro veramente solo quando sono sospesa nell’aria e le ali dell’aereo diventano un mio prolungamento».
Lui mi fissò negli occhi e io compresi lo sforzo che stava facendo per capire senza giudicare. Allora lo abbracciai stretto e gli sussurrai nell’orecchio: «Io non appartengo a nessuno, George, nemmeno a me stessa. Io appartengo al cielo».
Decollai da Terranova accompagnata da una piccola folla di donne e di uomini entusiasti; col naso all’insù salutavano la mia partenza, sventolando fazzoletti. Ma fra quelle persone si nascondevano anche alcuni scettici, soprattutto giornalisti, che non credevano che sarei riuscita nell’impresa.
Mentre prendevo quota, lasciandomi alle spalle il sole basso all’orizzonte, vidi il mare ammantato dalla foschia. In breve la nebbia si accoccolò lentamente con passo felino, poi passò oltre. Rabbrividii nell’udire il motore ronzare dolcemente e, nella mia solitudine, sospesa nel cielo che imbruniva, mi sentii a casa.
Spuntarono le prime le stelle; parevano attaccate fuori dalla cabina, così vicine da poterle toccare e io ero immersa nella notte stellata, come se fossi parte del firmamento.
Fu così che, cullata dall’abitacolo del monomotore, non mi resi conto che gli occhi mi si stavano chiudendo.
Mi riscossi quasi subito, fortunatamente, prima che il sonno prendesse il sopravvento. Inspirai profondamente per scacciare la stanchezza, ma in breve fui colta dai brividi: l’umidità della notte e le temperature rigide avevano stretto il Lockheed Vega nella morsa del gelo. Una patina ghiacciata stava ricoprendo il tettuccio di vetro e ben presto la visibilità diminuì drasticamente. Ma la cosa peggiore era che il ghiaccio aveva ricoperto le ali del monoplano, appesantendolo, e con terrore mi accorsi che non riuscivo più a manovrarlo.
Stavo perdendo quota, quando ebbi la prontezza di spirito di attivare il sistema di decongelamento pneumatico installato sul bordo delle ali, pregando che funzionasse. Dopo alcuni istanti in cui mi pareva di cadere in picchiata, alla fine il ghiaccio si staccò e così potei riprendere la traversata alzando il Lockheed a una quota più elevata, dove l’aria era più secca.
Mi godetti così le ultime ore di volo, convinta di riuscire a raggiungere Parigi entro il tempo previsto dal programma che avevo studiato a fondo, quando all’improvviso l’aereo fu scosso da una violenta turbolenza e in breve mi ritrovai in balia di un temporale ad alta quota. Le nubi dense e le forti piogge rendevano nulla la visibilità e intorno a me cominciarono a saettare i fulmini, accompagnati da tuoni assordanti.
Raffiche di vento improvvise si abbatterono sul velivolo, rendendo praticamente impossibile governarlo.
Non c’era nient’altro che potessi fare, se non cercare di mantenere l’assetto il più stabile possibile e stringere i denti. Ridussi la velocità, evitando manovre brusche, nella speranza di uscire presto dalla tempesta. Continuavo a controllare la strumentazione, quando mi accorsi che qualcosa non andava. Il collettore di destra aveva cominciato improvvisamente a emettere un rumore assordante, mi voltai per controllare e mi accorsi delle fiamme: il collettore aveva preso fuoco!
A quel punto cominciai a temere seriamente che non ce l’avrei fatta. Ogni cosa stava andando per il verso sbagliato e il cielo, che fino a quel momento avevo considerato casa mia, ora si stava rivelando mio avversario.
Cercai a tutti i costi di mantenere la calma, ricacciando indietro le lacrime, diedi uno sguardo al livello del carburante e controllai la rotta.
Inaspettatamente, così come era cominciato, il temporale diminuì d’intensità fino a sparire del tutto. Le nubi si stavano diradando e sotto di me potevo scorgere la superficie dell’oceano riflettere la luce del mattino come una lastra d’acciaio. Ma all’orizzonte non vedevo ancora terra.
Mi imposi di tenere a bada l’ansia, consolandomi all’idea che almeno mi ero lasciata la tempesta alle spalle, ma le emozioni intense di quella notte interminabile stavano facendo sentire il loro peso sul mio fisico debilitato anche dalle lunghe ore di immobilità e dalla mancanza di sonno.
La luce del giorno si riversò nell’abitacolo, costringendomi a calare sul viso gli occhiali dalle lenti oscurate, perciò non distinsi subito la linea che si stava delineando all’orizzonte.
Piansi di gioia quando d’un tratto mi parve di scorgere qualcosa che interrompeva la distesa sconfinata dell’oceano: ma certo, quella era la costa!
Controllai nuovamente il livello del carburante, poi cercai di aumentare la potenza, nonostante il collettore danneggiato, e in breve vidi sotto di me le acque fredde dell’Atlantico lasciare il posto a verdi praterie, su cui riuscii ad atterrare senza troppi rischi. Quando finalmente spensi il motore, mi abbandonai esausta contro il sedile.
Erano trascorse quattrodici ore e cinquantasei minuti da quando avevo salutato la costa del Canada e ora mi trovavo in Europa. Per la precisione nell’Irlanda del Nord, come seppi dopo.
Sono passati cinque anni da allora, ma ricordo ancora il calore della folla che mi accolse in patria al mio rientro negli Stati Uniti e perfino coloro che avevano predetto un mio insuccesso dovettero ricredersi.
Sto entrando in un banco di nuvole e secondo il mio Longines mancano solo due minuti all’orario stabilito per il contatto radio con la Guardia costiera; dall’Itasca mi avevano avvisato che il meteo non era buono nei pressi di Howland, quindi non dovrei essere molto distante dall’isola.
Accidenti, la lancetta dell’indicatore del carburante è decisamente inclinata a sinistra. Eppure il serbatoio era pieno quando sono partita da Lae e, secondo i miei calcoli, con i venti a favore il carburante avrebbe dovuto essere più che sufficiente per raggiungere l’isola.
«Itasca, qui King-How-Able-Queen-Queen, mi sentite?»
…
«Itasca, parla Earhart, sono a duecento miglia da Howland, cielo completamente coperto, passo.»
…
Non capisco, l’ora stabilita per il contatto era questa. Provo a cambiare frequenza.
«Itasca, sono Earhart, sto trasmettendo sulla frequenza tre-uno-zero-cinque. Mi sentite?»
…
Ancora nulla.
È meglio che scenda di quota, quassù continuo a brancolare nella foschia e ho perso il contatto visivo.
«Itasca, non riesco a ricevere il vostro segnale. Ora dovrei trovarmi a circa cento miglia da Howland. Continuerò a trasmettere su questa frequenza.»
…
Se almeno queste nubi si diradassero! Sono costretta a virare per cercare di uscire dal banco. Vorrei evitare di scendere troppo.
Ora la visibilità sta migliorando.
Dio ti prego, fa che riesca a stabilire il contatto visivo con l’isola. Ti prego, ti prego, ti prego…
Ecco, le nubi si dissolvono…
No, no, no… Vedo solo oceano!
Ma come è possibile? Sono così tanto fuori rotta? E perché l’Itasca non risponde ai miei messaggi?
Calma, Amelia, calma. Non è certo la prima volta che ti trovi in una situazione critica e te la sei sempre cavata. Respira a fondo e riprova.
«Itasca, dovrei essere sopra di voi, ma non riesco a vedervi. Il carburante si sta esaurendo. Non sono riuscita a raggiungervi via radio. Sto volando a mille piedi.»
…
Le sette e cinquantotto… È trascorso troppo tempo dall’ora fissata per il contatto radio. Cosa diavolo sta succedendo?
«Itasca, non vi sento. Inviate segnali vocali, così posso tentare di trovare la posizione via radio.»
Arriva qualcosa! È in codice Morse: “Impossibile inviare segnali alla frequenza richiesta stop… necessario conoscere direzione velivolo stop”.
Senza una comunicazione con la nave non mi è possibile ottenere informazioni corrette sulla direzione!
«Itasca, messaggio ricevuto. Purtroppo non sono in grado di determinare la direzione.»
Dio mio, questo silenzio radio mi fa impazzire.
Il carburante sta terminando e se sfrutto i venti di coda posso rubare ancora mezz’ora di volo, non di più. E poi?
Com’è che mi viene da ridere? Devono essere i nervi…
Mi torna in mente quella volta che fummo costretti ad attraversare l’Atlantico con un aereo munito di galleggianti per l’ammaraggio di fortuna. Allora io e il comandante maledicemmo quei pattini ingombranti, perché pesavano enormemente e non ci consentivano di alzarci in volo; adesso non so cosa darei perché il Lockheed montasse dei galleggianti al posto del carrello d’atterraggio, così inutile nel bel mezzo del Pacifico!
Mi sembra di impazzire. E ancora non si vede niente! Solo cielo e acqua.
Maledizione, non voglio ancora arrendermi!
«Itasca, sono sulla linea Uno-Cinque-Sette-Tre-Tre-Sette. Ripeterò questo messaggio alla frequenza di Sei-Due-Uno-Zero.»
…
È tutto inutile e io sono stanca.
Sarebbe così facile abbandonarsi alle correnti, come un gigantesco uccello di metallo. È una tentazione irresistibile.
Il cielo ora è magnifico, l’aria è così azzurra e screziata di nubi che mi sembra di essere in Kansas.
La gente pensa che il cielo sia uguale in qualsiasi parte del mondo e invece non è così. Qui nel Pacifico ha una sfumatura turchese, mentre altrove, come sopra le grandi pianure africane che ho attraversato giorni fa, è di una tonalità perlacea che ho visto solo a quelle latitudini.
Che sciocca sono stata a pensare che il cielo fosse la mia vera casa: le mie sono soltanto ali posticce e io sono destinata a restare a terra come un piombo. O a tornarci come un piombo.
Come un moderno Icaro, ho ambito avvicinarmi troppo al Sole e ho bruciato così le mie povere ali di cera.
Azzurro e silenzio, ciò che ho sempre desiderato per tutta la vita.
Un momento, c’è troppo silenzio! I motori non rombano più. Il carburante… Il carburante è terminato!
«Itasca, se mi sentite il carburante si è esaurito. Ripeto: il carburante si è esaurito. Sto sfruttando le correnti ascensionali.»
Le correnti ora sono l’unica forza che mi trattiene in aria.
Se guardo sopra di me e sotto di me vedo solo cielo. Quasi che cielo e oceano fossero la stessa cosa.
Sto planando sull’oceano e mi sento trasportata verso un posto bellissimo, semplice e sicuro, dove ogni cosa è comprensibile.
È strano: non provo più paura, né rimpianto.
Sono libera nell’aria, come non lo sono mai stata.
Perdonami George, se puoi, e non volermene…
Del resto l’ho sempre saputo e, in fondo, lo sapevi anche tu: non appartengo a nessuno, nemmeno a me stessa.
Appartengo al cielo.