Episodio 1 [Susanna]
Episodio 2 [Achillu]
Da qualche giorno ero decisamente fuori fase e le scadenze con l’editore stavano virando in urgenze.
Neanche la splendida tavolozza di colori autunnali del giardino riusciva a darmi lo stimolo giusto per affrontare il lavoro. La causa? Un pacchetto che da alcuni giorni vagava per lo studio.
Che un oggetto potesse avere poteri occulti è una bella idea, ma solo per un romanzo.
Eppure un piccolo dubbio aveva iniziato a insinuarsi.
“Aprimi, aprimi!” era il suo insistente invito e al mio rifiuto, si vendicava.
Non serviva cambiargli posto e, per non scomodare quelli del calendario, mi ero inventata santi protettori utili per future e inaspettate perdite: san Macrì per una chiavetta e san Gerundio per il cellulare.
Quella mattina a interrompere le ricerche del pacchetto, con allegate le chiavi di casa, era stato lo squillo di una video chiamata, a cui risposi incautamente.
«Perché non sei venuta alla lettura del mio testamento?» Prisca Vidal odiava i convenevoli.
«Perché non eri morta.»
«Ma potevo esserlo.»
«Tu, una dipartita privata? Faresti un patto col diavolo pur di poter leggere necrologi e messaggi di condoglianze. Certo che anche il notaio, prestarsi a una tal pagliacciata!»
«È un vecchio amico, lui, che sa divertirsi. Lui.» Naso all’insù e aria offesa: col diavolo avevo colto nel segno.
«Tu ti sei divertita, con un’entrata a effetto, rediviva di bianco vestita!»
«Anche il bianco è un colore per il lutto.» Ammettere di aver esagerato, mai.
«Mi pare però che Lara abbia visto nero!»
«Uff! Sta benissimo. E i lasciti hanno messo tutto a posto.»
Conoscendola, immaginai i lasciti: il tansu giapponese, lampade vintage, servizi da tè e quadri, tutti acquisti emozionali, di valore e buongusto questo sì, ma finiti in soffitta per far posto ad altro.
«E dai! A loro piacevano quelle cose, quindi… ho fatto pulizia.»
«Il diavolo ti ha messo alla porta e tu hai forzato quella sul retro.»
«Oh, la porta! Scusa Emma, hanno suonato.» Trarsi d’impaccio era una sua specialità.
Il giorno dopo Prisca mi chiamò sul cellulare:
«Perché ti ho licenziata?»
«Non mi hai licenziata, mi sono dimessa.»
«Davvero? Sai che non mi ricordo.»
Prisca ha una memoria di ferro, ma a senso unico.
«Davvero, Emma, non rammento. Sai, l’età...»
Col pacchetto in prima fila, le ricordai di come un anno prima avesse cestinato con un “Che schifo!” la mia versione del primo capitolo del suo ultimo libro, uscendo poi da casa sua sbattendo la porta e lasciandomi lì come una cretina.
Avevo scritto le mie dimissioni piangendo. Non ci eravamo più sentite.
Quello schifo però lo aveva utilizzato e, magra consolazione, c’era anche un po’ di me nel successo ottenuto.
La terza telefonata decretò che stavamo capitolando:
«Allora, l’hai aperto o no?»
Impiegai un secondo di troppo a rispondere:
«No, non an…»
«Fallo, Emma, prima che sia troppo tardi!»
«Ci penserò.»
«No, fallo e basta! Il tempo corre.»
Conoscevo Prisca da più di trent’anni: ero stata sua assistente, prima lettrice, editor e confidente ma quel tono, così accorato, mi era del tutto nuovo. Avevamo lavorato bene assieme: era instancabile, brillante e sensibile, ma dalla copertina ruvida e quella frase mi colpì. Il passare del tempo non era mai stato un problema per lei.
Quella sera aprii il pacchetto.
Avvolto nel pluriball c’era un elegante cofanetto con intarsi di madreperla, con dentro alcune boccette di inchiostro e Bice, la sua stilografica, off limits per tutti.
Mai avrei pensato che potesse liberarsene: era stato un dono di Natale del padre, modesto operaio, che lo aveva comprato, usato, dopo che alcuni racconti di Prisca erano stati pubblicati.
«Lo vidi vergognarsi di avermi regalato una cosa usata. Gli promisi che avrei scritto sempre e solo con questa penna, e l’ho fatto.»
Per stemperare il momento avevano battezzato la stilo Bice, come una cugina pettegola.
Sotto la penna trovai un bigliettino:
“Bice non mi serve più, non ho più nulla da dire. Riprendi i tuoi racconti, lavoraci con lei: è meglio del Mac. Scusa per quel giorno.”
“Non ho più nulla da dire”: mi ero chiesta tante volte cosa avesse incrinato quella che era stata anche una bella amicizia, e mi addolorò che Prisca avesse affrontato da sola l’angoscia di sapere che “L’ombra della neve” sarebbe stato il suo ultimo romanzo.
«Avresti dovuto dirmelo, donna testarda! Ti avrei aiutata!»
Piangendo trovai il posto giusto per Bice sulla scrivania.
Mi organizzai e riuscii a ritagliarmi un paio d’ore ogni giorno per riprendere i miei racconti da dove li avevo lasciati, anni prima. Li affrontai come fossero scritti da altri: era il mio lavoro dopo tutto. Mi fecero un po’ pena: lo stile era buono ma dovevo sfrondare senza pietà, liberarmi di personaggi e passaggi inutili.
Ogni tanto Prisca mi inviava un messaggio, sempre quello:
«Come va?»
Le mie risposte? Punto morto, sono nella m…, togliti dalle palle, forse ci siamo, bleah.
Impiegai diversi mesi a riscrivere otto racconti e quando le risposi: «Finito!» la sua replica fu: «Arrivo.»
Li avevo riscritti a mano, con Bice.
Neanche la splendida tavolozza di colori autunnali del giardino riusciva a darmi lo stimolo giusto per affrontare il lavoro. La causa? Un pacchetto che da alcuni giorni vagava per lo studio.
Che un oggetto potesse avere poteri occulti è una bella idea, ma solo per un romanzo.
Eppure un piccolo dubbio aveva iniziato a insinuarsi.
“Aprimi, aprimi!” era il suo insistente invito e al mio rifiuto, si vendicava.
Non serviva cambiargli posto e, per non scomodare quelli del calendario, mi ero inventata santi protettori utili per future e inaspettate perdite: san Macrì per una chiavetta e san Gerundio per il cellulare.
Quella mattina a interrompere le ricerche del pacchetto, con allegate le chiavi di casa, era stato lo squillo di una video chiamata, a cui risposi incautamente.
«Perché non sei venuta alla lettura del mio testamento?» Prisca Vidal odiava i convenevoli.
«Perché non eri morta.»
«Ma potevo esserlo.»
«Tu, una dipartita privata? Faresti un patto col diavolo pur di poter leggere necrologi e messaggi di condoglianze. Certo che anche il notaio, prestarsi a una tal pagliacciata!»
«È un vecchio amico, lui, che sa divertirsi. Lui.» Naso all’insù e aria offesa: col diavolo avevo colto nel segno.
«Tu ti sei divertita, con un’entrata a effetto, rediviva di bianco vestita!»
«Anche il bianco è un colore per il lutto.» Ammettere di aver esagerato, mai.
«Mi pare però che Lara abbia visto nero!»
«Uff! Sta benissimo. E i lasciti hanno messo tutto a posto.»
Conoscendola, immaginai i lasciti: il tansu giapponese, lampade vintage, servizi da tè e quadri, tutti acquisti emozionali, di valore e buongusto questo sì, ma finiti in soffitta per far posto ad altro.
«E dai! A loro piacevano quelle cose, quindi… ho fatto pulizia.»
«Il diavolo ti ha messo alla porta e tu hai forzato quella sul retro.»
«Oh, la porta! Scusa Emma, hanno suonato.» Trarsi d’impaccio era una sua specialità.
Il giorno dopo Prisca mi chiamò sul cellulare:
«Perché ti ho licenziata?»
«Non mi hai licenziata, mi sono dimessa.»
«Davvero? Sai che non mi ricordo.»
Prisca ha una memoria di ferro, ma a senso unico.
«Davvero, Emma, non rammento. Sai, l’età...»
Col pacchetto in prima fila, le ricordai di come un anno prima avesse cestinato con un “Che schifo!” la mia versione del primo capitolo del suo ultimo libro, uscendo poi da casa sua sbattendo la porta e lasciandomi lì come una cretina.
Avevo scritto le mie dimissioni piangendo. Non ci eravamo più sentite.
Quello schifo però lo aveva utilizzato e, magra consolazione, c’era anche un po’ di me nel successo ottenuto.
La terza telefonata decretò che stavamo capitolando:
«Allora, l’hai aperto o no?»
Impiegai un secondo di troppo a rispondere:
«No, non an…»
«Fallo, Emma, prima che sia troppo tardi!»
«Ci penserò.»
«No, fallo e basta! Il tempo corre.»
Conoscevo Prisca da più di trent’anni: ero stata sua assistente, prima lettrice, editor e confidente ma quel tono, così accorato, mi era del tutto nuovo. Avevamo lavorato bene assieme: era instancabile, brillante e sensibile, ma dalla copertina ruvida e quella frase mi colpì. Il passare del tempo non era mai stato un problema per lei.
Quella sera aprii il pacchetto.
Avvolto nel pluriball c’era un elegante cofanetto con intarsi di madreperla, con dentro alcune boccette di inchiostro e Bice, la sua stilografica, off limits per tutti.
Mai avrei pensato che potesse liberarsene: era stato un dono di Natale del padre, modesto operaio, che lo aveva comprato, usato, dopo che alcuni racconti di Prisca erano stati pubblicati.
«Lo vidi vergognarsi di avermi regalato una cosa usata. Gli promisi che avrei scritto sempre e solo con questa penna, e l’ho fatto.»
Per stemperare il momento avevano battezzato la stilo Bice, come una cugina pettegola.
Sotto la penna trovai un bigliettino:
“Bice non mi serve più, non ho più nulla da dire. Riprendi i tuoi racconti, lavoraci con lei: è meglio del Mac. Scusa per quel giorno.”
“Non ho più nulla da dire”: mi ero chiesta tante volte cosa avesse incrinato quella che era stata anche una bella amicizia, e mi addolorò che Prisca avesse affrontato da sola l’angoscia di sapere che “L’ombra della neve” sarebbe stato il suo ultimo romanzo.
«Avresti dovuto dirmelo, donna testarda! Ti avrei aiutata!»
Piangendo trovai il posto giusto per Bice sulla scrivania.
Mi organizzai e riuscii a ritagliarmi un paio d’ore ogni giorno per riprendere i miei racconti da dove li avevo lasciati, anni prima. Li affrontai come fossero scritti da altri: era il mio lavoro dopo tutto. Mi fecero un po’ pena: lo stile era buono ma dovevo sfrondare senza pietà, liberarmi di personaggi e passaggi inutili.
Ogni tanto Prisca mi inviava un messaggio, sempre quello:
«Come va?»
Le mie risposte? Punto morto, sono nella m…, togliti dalle palle, forse ci siamo, bleah.
Impiegai diversi mesi a riscrivere otto racconti e quando le risposi: «Finito!» la sua replica fu: «Arrivo.»
Li avevo riscritti a mano, con Bice.
Episodio 2 [Achillu]
Non mi aspettavo che Prisca sarebbe stata di parola, ma avrei dovuto immaginarlo. Ero intenta nelle faccende di casa quando poco dopo suonò alla porta; andai ad aprire e mi trovai di fronte lei, ma con una presenza fisica diversa.
«Che c’è, hai visto un fantasma?»
La salutai e la lasciai entrare, sorvolando sia sul taglio di capelli che sull’aspetto gonfio, due novità che non stavano bene tra di loro e soprattutto non riuscivo ad associare a lei.
Si diresse sicura in soggiorno, con il solito passo affettato, nonostante il nuovo abbondante fisico. «Dov’è questo capolavoro?»
«Eccolo.» Indicai i fogli impilati in ordine sullo scrittoio, con a fianco il cofanetto di Bice.
«“Punti di vista”? Debole, come titolo, si può fare di meglio.»
Sospirai. «Mi venivano in mente solo cose come “Metamorfosi” o “La fattoria degli animali”. Eppure con i tuoi romanzi mi uscivano spontanei, ma con i miei racconti…»
Si era già messa a sfogliare le pagine scritte a mano, nel modo apparentemente superficiale che conoscevo. «Sì, sì. Ma infatti. Ne parlerò con l’editor, che è pacifico non sarai tu.»
Non aveva perso quella mania fastidiosa di sottolineare l’ovvio. La lasciai rovistare tra le parole che mi erano uscite con tanta fatica. In alcuni passaggi mi ero messa così a nudo, che il pensiero di un collega intento a spulciare la mia anima mi faceva rabbrividire e pentire di aver pensato alla pubblicazione per tutto quel tempo.
«Non avevo dubbi che avrebbe funzionato!» disse alla fine, indicando il cofanetto dove Bice si godeva il meritato riposo. Raccolse il plico e lo ripose con finto disinteresse nel suo borsone, decorato con un marchio inconfondibile.
Mi venne la pelle d’oca. Cercai di mascherare i miei timori e l’ansia di ciò che significava quel gesto. «Non ti ho ancora offerto niente, hai bisogno di qualcosa?»
Abbassò gli angoli della bocca. «Niente, grazie. Ho già tutto quello che mi serve.» Accompagnò la frase picchiettando sulla borsa appoggiata alla spalla.
«Ma nemmeno un bicchier d’acqua?»
Mi sembrò per un attimo interdetta, ma gli occhi ripresero subito vivacità. «Te lo ripeto ogni volta: il tempo corre e ne resta sempre meno per queste bazzecole.» Si diresse sicura verso l’uscita.
L’accompagnai alla porta, confusa da tutta quella fretta. Nemmeno ero riuscita a chiederle come stava. Ci salutammo così.
Si volatilizzò.
Non rispose più ai messaggi né alle telefonate.
Non mi fece nemmeno più salire al suo appartamento.
Mi sentii doppiamente svuotata. Per mesi mi ero convinta che i suoi messaggi fossero il segno di un’amicizia che rinasceva, o forse maturava per la prima volta. Invece il suo interesse era solo per il manoscritto, e ora che l’aveva portato via era evidente persino ai miei occhi.
Anche Bice rimase sola e abbandonata nel cofanetto. L’unica cosa che avesse dato ascolto alla mia anima e voce alle mie parole mi ricordava, con rabbia e tristezza, la persona che me le aveva sottratte.
Dopo qualche mese arrivò uno scatolone dall’editore. All’interno, fresche di stampa, decine di copie di un libro, la prima raccolta di racconti di Prisca Vidal; il titolo era “Punti di vista”.
Persino quello si era presa.
Una busta accompagnava il pacco, all’interno un assegno a cinque cifre e una lettera scritta al computer.
Cara Emma.
Scusami se non mi sono più fatta sentire, ma il tempo corre e avevo un sacco di cose da fare.
Questo è solo l’anticipo per il tuo lavoro.
Ho convinto Fumagalli a pagarti in percentuale sulle vendite, mi sembrava il minimo sindacale per una ghost-writer del tuo calibro.
Riceverai il saldo a dicembre e poi vedrai che qualcosa arriverà anche nei prossimi anni, il nome di Prisca Vidal sarà pur sempre una garanzia!
Non c’è bisogno che mi ringrazi, hai scritto otto piccoli capolavori ed è sacrosanto che ricevano la giusta ricompensa.
Senza di me, avrebbero ricevuto solo quattro spiccioli e non mi sembrava giusto.
Buona vita.
La firma, almeno quella, era autografa.
Rigirai l’assegno tra le dita, imbambolata e stordita da quelle parole. Rilessi l’importo, prima in cifre e poi in lettere per essere sicura. Quei numeri avevano un significato preciso nella mia vita e li presi come un segno.
Sapevo cosa fare con tutti quei soldi.
«Che c’è, hai visto un fantasma?»
La salutai e la lasciai entrare, sorvolando sia sul taglio di capelli che sull’aspetto gonfio, due novità che non stavano bene tra di loro e soprattutto non riuscivo ad associare a lei.
Si diresse sicura in soggiorno, con il solito passo affettato, nonostante il nuovo abbondante fisico. «Dov’è questo capolavoro?»
«Eccolo.» Indicai i fogli impilati in ordine sullo scrittoio, con a fianco il cofanetto di Bice.
«“Punti di vista”? Debole, come titolo, si può fare di meglio.»
Sospirai. «Mi venivano in mente solo cose come “Metamorfosi” o “La fattoria degli animali”. Eppure con i tuoi romanzi mi uscivano spontanei, ma con i miei racconti…»
Si era già messa a sfogliare le pagine scritte a mano, nel modo apparentemente superficiale che conoscevo. «Sì, sì. Ma infatti. Ne parlerò con l’editor, che è pacifico non sarai tu.»
Non aveva perso quella mania fastidiosa di sottolineare l’ovvio. La lasciai rovistare tra le parole che mi erano uscite con tanta fatica. In alcuni passaggi mi ero messa così a nudo, che il pensiero di un collega intento a spulciare la mia anima mi faceva rabbrividire e pentire di aver pensato alla pubblicazione per tutto quel tempo.
«Non avevo dubbi che avrebbe funzionato!» disse alla fine, indicando il cofanetto dove Bice si godeva il meritato riposo. Raccolse il plico e lo ripose con finto disinteresse nel suo borsone, decorato con un marchio inconfondibile.
Mi venne la pelle d’oca. Cercai di mascherare i miei timori e l’ansia di ciò che significava quel gesto. «Non ti ho ancora offerto niente, hai bisogno di qualcosa?»
Abbassò gli angoli della bocca. «Niente, grazie. Ho già tutto quello che mi serve.» Accompagnò la frase picchiettando sulla borsa appoggiata alla spalla.
«Ma nemmeno un bicchier d’acqua?»
Mi sembrò per un attimo interdetta, ma gli occhi ripresero subito vivacità. «Te lo ripeto ogni volta: il tempo corre e ne resta sempre meno per queste bazzecole.» Si diresse sicura verso l’uscita.
L’accompagnai alla porta, confusa da tutta quella fretta. Nemmeno ero riuscita a chiederle come stava. Ci salutammo così.
Si volatilizzò.
Non rispose più ai messaggi né alle telefonate.
Non mi fece nemmeno più salire al suo appartamento.
Mi sentii doppiamente svuotata. Per mesi mi ero convinta che i suoi messaggi fossero il segno di un’amicizia che rinasceva, o forse maturava per la prima volta. Invece il suo interesse era solo per il manoscritto, e ora che l’aveva portato via era evidente persino ai miei occhi.
Anche Bice rimase sola e abbandonata nel cofanetto. L’unica cosa che avesse dato ascolto alla mia anima e voce alle mie parole mi ricordava, con rabbia e tristezza, la persona che me le aveva sottratte.
Dopo qualche mese arrivò uno scatolone dall’editore. All’interno, fresche di stampa, decine di copie di un libro, la prima raccolta di racconti di Prisca Vidal; il titolo era “Punti di vista”.
Persino quello si era presa.
Una busta accompagnava il pacco, all’interno un assegno a cinque cifre e una lettera scritta al computer.
Cara Emma.
Scusami se non mi sono più fatta sentire, ma il tempo corre e avevo un sacco di cose da fare.
Questo è solo l’anticipo per il tuo lavoro.
Ho convinto Fumagalli a pagarti in percentuale sulle vendite, mi sembrava il minimo sindacale per una ghost-writer del tuo calibro.
Riceverai il saldo a dicembre e poi vedrai che qualcosa arriverà anche nei prossimi anni, il nome di Prisca Vidal sarà pur sempre una garanzia!
Non c’è bisogno che mi ringrazi, hai scritto otto piccoli capolavori ed è sacrosanto che ricevano la giusta ricompensa.
Senza di me, avrebbero ricevuto solo quattro spiccioli e non mi sembrava giusto.
Buona vita.
La firma, almeno quella, era autografa.
Rigirai l’assegno tra le dita, imbambolata e stordita da quelle parole. Rilessi l’importo, prima in cifre e poi in lettere per essere sicura. Quei numeri avevano un significato preciso nella mia vita e li presi come un segno.
Sapevo cosa fare con tutti quei soldi.