Questa di Marinella è una storia vera,
Che scivolò nel fiume a primavera,
Ma il vento che la vide così bella,
Dal fiume la portò sopra una stella.
Era la voce di Alfredo: una melodia flebile come un sussurro, confusa tra gli ululati del vento.
Premette il tasto PAUSE, soffocando singhiozzi che le bloccavano il respiro.
Si accasciò a terra con la schiena appoggiata al muro del lungo corridoio, sotto gli occhi meravigliati dei pazienti e degli altri visitatori. REWIND: doveva riascoltare tutto dall’inizio.
20 febbraio
Sono eccitata.
Anche Alfredo lo è, ma non lo dà a vedere. Ora ci provo: “Dimmi le tue impressioni.”
“Marina, piantala. Sto dormendo!”
“No, fingevi, lo so. Hai paura di dire quello che pensi in questo stupido registratore?”
Non reagisce; devo trovare da sola un modo di ingannare il tempo di questo interminabile volo.
Le aspettative sono tante, e la paura ancora di più: la paura che il rimorso di avere fatto la scelta sbagliata mi tormenti per tutta la vita.
Sono passati solo due mesi da quella notte folle. È stata anche stupida?
Tutti a tavola per festeggiare il Natale, per scambiarsi gesti d’affetto: capita, una volta all’anno. Io e Alfredo? Di là, col PC a lavorare, chiusi nella mia vecchia cameretta, sdraiati sul mio letto, che ora mi sembra così piccolo.
“Venite… per i regali!”
È stata mia nonna a chiamarci. Avrebbe potuto dire: “Non venite, almeno per i regali?” aggiungendo quelle due parole di rimprovero. Lei no, non giudica, semmai consiglia, con tenerezza e discrezione.
Ho scartato per primo il suo regalo: due biglietti aerei con destinazione da scegliere. Mi hanno fatto così felice che neanche ho notato il libro che li conteneva. Fino a sera, a casa nostra, sola con Alfredo, sul divano, con il PC ancora aperto di fronte a me.
Era un libro sull’India. Un’immagine mi ha colpito nel profondo: un sadhu immobile, in meditazione nella posizione del loto, circondato da alte vette di ghiaccio e da un fiume spumeggiante. Nulla in quel momento pareva distrarlo, neanche il vento che agitava i capelli.
Un desiderio irrefrenabile mi ha preso all’istante, nel mio cuore e nella mia mente: lì, voglio arrivare anch’io lì!
Sono tornata indietro di dieci anni, quando ancora credevo e speravo, quando la gente mi stupiva e mi emozionava. “Alfredo,” ho detto, “guardaci a 32 anni: cosa saremo a 50? Vivere per lavorare? Per la carriera? Per chi?”
Mi hai guardata stranito.
“Da quant’è che non scopiamo? Io voglio essere felice, con te. Forse ci stiamo concentrando sulle cose sbagliate.”
Ti sei voltato, per fuggire da queste parole, troppo vere per non far male.
“Che fine hanno fatto le tue montagne, le tue scalate? Scappavi là ogni fine settimana, prima che le scadenze di lavoro ti spegnessero anche quei sogni.”
Hai preso il telefonino.
“Non mi guardi neanche? Leggi le e-mail mentre ti parlo?”
L’hai gettato contro il muro, con forza, poi ti sei girato. La luce nei tuoi occhi era tornata.
“Hai ragione, prendiamo un mese, anzi no, due.”
“Almeno tre! Se non ci aspettano, amen: se ci aspettano… beh, vediamo comunque noi quando torniamo.”
23 febbraio
Ho preso il posto al finestrino. Voglio respirare ogni istante di questo viaggio a Haridwar. È uno dei treni vecchi, con le sbarre ai finestrini, senza neanche i vetri: a breve lo rimpiazzeranno con il moderno Express. Non mi importa: neanche noto il sedile consunto che ha perso l’imbottitura da almeno un decennio.
Che ne pensa Alfredo?
“Ci lasci qualche perla di saggezza oggi?”
“Sì, sono contento di fuggire da Delhi, dalla delusione degli indiani indaffarati nel tran tran come noi, ingabbiati nelle nostre stesse preoccupazioni, nella nostra stessa avidità. Ci siamo stati solo due giorni, già troppi.”
Ha ragione: a Haridwar sarà diverso, è la “porta verso gli Dei”, dove inizia il Char Dham, il pellegrinaggio fino alla sorgente del Gange.
Zaino in spalla, come una volta, carico da cadere all’indietro quando te lo metti su. Abbiamo tutto con noi: è dura abbandonare la programmazione metodica di cui siamo schiavi. Tenda, sacco a pelo, borraccia, fornellino e qualche busta, delle nostre, per sfuggire al curry. Scarponi ai piedi: da quanto tempo erano a prendere muffa in cantina! Li riempiremo di passi, fino alle montagne e magari un po’ più in su: non sono ottomila, ma dalle foto ci lasciano senza fiato.
28 febbraio
Giorni di full immersion nell’India. Quella vera? Non so, ma è quella che ti aspetti. Haridwar è una cittadina di neanche duecentomila abitanti ma ti sembrano due milioni.
Per arrivare ai gath, scendere i gradini fino a immergerti nella Madre Ganga, ci si deve aprire un varco fra derelitti che, con la loro ciotola, vivono di elemosine: lebbrosi, storpi che mostrano ossa contorte, corpi devastati da deformazioni che mettono in evidenza, per qualche rupia in più.
Ti afferrano quando passi, ti strattonano, lasciandoti una sensazione di disagio, non di paura. Credo sia il rimorso, il pensiero che il nostro superfluo potrebbe essere per loro ragione di vita.
Abbiamo trascorso ore seduti su quei gradini, impregnati dell’umanità e della vita che pullula sulle sponde del fiume, respirando profumo di sandalo portato dal vento, caldo e leggero, che arriva dalle pianure del sud. Colori, odori, cantilene bisbigliate a comporre preghiere. Uomini e donne, si chinano, con le mani giunte a ringraziare Shiva o Vishnu, si lavano il volto, si immergono, bevono. I dhoti in cotone, cari al Mahatma, si appiccicano alla pelle; i sari svolazzano in controluce mostrando silhouette che denunciano le troppe maternità.
Lumini accesi, fiori, incensi vengono affidati all’acqua, galleggiando su foglie con la speranza che la corrente li conduca lontano.
7 marzo
Che settimana!
Siamo stati in un ashram: meditazione e yoga. Ce ne sono molti qui a Rishikesh: ne abbiamo scelto uno piccolo. Siamo i soli occidentali, a parte due giapponesi e un coreano, se vogliamo considerarli tali. Si affaccia sul fiume su una terrazza circondata da alberi. Si comincia prima dell’alba, quando è ancora buio; i mantra riecheggiano dal profondo, infondendo una sensazione di pace mai provata. Il sole sorge proprio di fronte, pronto a raccogliere il nostro saluto. Poi preghiere, yoga, canti scandiscono le giornate fino a sera, quando il vento che proviene dall’Himalaya soffia sulla valle facendo suonare le campanelle e spargendo a terra i fiori bianchi dei frangipane.
La sera ci uniamo agli altri pellegrini, verso i templi lungo il Gange, dove iniziano le cerimonie per il dio Shiva.
“La mia piccola adoratrice di falli!”
“Non prendermi il registratore solo per dire cazzate!”
Però è vero, l’adorazione del lingam mi affascina; avverto una grande energia toccando quelle sculture delle più svariate dimensioni, lucide di oli, ornate di ghirlande e di polvere rossa.
Sarà lo yoga, o questi riti, ma sono notti che facciamo l’amore per ore. Ho raggiunto un piacere che mai avevo provato, come se una fonte inesauribile di energia avvolgesse interamente i nostri corpi.
“E’ così anche per te?”
“Marina, non farmi domande imbarazzanti che sono timido… ma posso dirti che il lingam mi sta dando grosse soddisfazioni.”
15 marzo
Gangotri ci è apparsa come un miraggio.
Alfredo mi ha convinto a raggiungerla con bus locali, invece che con un 4x4 Tata Safari, che qui va per la maggiore. Una corriera così sgangherata, carica di umanità, pacchi di ogni genere, gabbie con galline o altri animali, che faticavo a vedere fuori dal finestrino. Meglio così: la strada era un incubo, tra buche, pietre, guadi, precipizi. Si snodava stretta, incastonata tra le pareti di roccia, rubando alla montagna lo spazio minimo necessario. Curve, controcurve tornanti, sempre sul ciglio dell’abisso, finché non si incrociava un altro mezzo, e allora era un cinema.
A Uttarkashi, Alfredo mi ha tirato la sola: “Proseguiamo a piedi, saranno tre giorni di cammino.”
“Ti dà rivolta il cervello?”
“Hai fretta? E poi ci acclimatiamo, salendo pian piano. A 3200 metri, l’aria è rarefatta.”
Così abbiamo fatto, schivando i camion radenti con i clacson assordanti, qualche masso franato dalle pareti, imboccando un sentiero quando ne avevamo la possibilità, seguendo pellegrini che con ciabatte o piedi nudi facevano lo stesso percorso.
Abbiamo trovato una stanza in una guest house, sapendo che nei giorni a venire la tenda sarebbe stata la nostra sola reggia.
Qualche insetto di troppo ci visita la notte costringendoci a ridicole battaglie, la testa è ancora pesante per l’altitudine, ma non rinunciamo ad amarci, a baciarci all’infinito, in una sintonia e appartenenza intense da togliere il fiato.
Domani partiamo, saliamo ancora.
16 marzo
Giornata dura, anche se l’inizio mi aveva fatto ben sperare. Dapprima il sentiero sale dolcemente, contornato da cedri e rododendri, giganti rispetto ai nostri cespugli, stranamente non ancora in fiore, segno dell’inverno rigido che hanno patito e del vento, ancora freddo.
Poi si stringe, si arrampica, diventa complicato e faticoso. Risente dei ghiacci che più in alto cominciano a sciogliersi: rivoli d’acqua lo tramutano a tratti in una fanghiglia scivolosa.
Il fiume sotto ci segue, segnando la sua presenza con un rumore fragoroso, anche quando gli strapiombi ne impediscono la vista.
Stanotte stiamo qui, a Bhojibasa, in tenda, nella guest house non c’era neanche un buco.
Sento la zip del sacco a pelo di Alfredo aprirsi.
“Vado a fare pipì, ma quando torno spegni la luce che dormiamo”.
È uscito. Ho una gamba scoperta, sento vampate non naturali per me che sono freddolosa… e qui non fa caldo.
17 marzo
Non pensavo l’avrei fatto, invece sì.
A Gaumukh nasce il Gange: è poco più di un torrente, incanalato tra grossi blocchi di granito grigio, su cui contrasta l’arancione dei sadhu, immobili per ore, assenti e allo stesso tempo così presenti.
A Gaumukh l’acqua è fredda: arriva diretta dal ghiacciaio che si snoda come una lingua per più di 30 km
A Gaumukh l’aria è fredda: dalle cime, si incanala a valle e poi lungo il canyon, diventando densa e pesante. A gennaio dicono il vento possa essere spaventoso; in questo periodo normalmente è più leggero, ma non quest’anno, che sembra non riesca a scrollarsi l’inverno di dosso.
A Gaumukh i pellegrini si immergono nella corrente gelida, per purificare l’anima e il corpo: e l’abbiamo fatto anche noi.
Respiravamo a fatica, per il freddo, per l’altitudine, per il vento che ci sferzava il volto. Ci siamo stretti, bagnati e intirizziti, i muscoli tesi, trafitti da mille spilli. Ho avvicinato le labbra al suo orecchio. “Sono incinta”, gli ho detto. E abbiamo pianto, come bambini: non so se siamo mai stati così felici.
19 marzo
L’altopiano Tapovan ti accoglie alla fine della salita, come uno spazio libero che ti apre anche il cuore. È ancora brullo, ma ci giurano che entro qualche settimana si trasformerà in un prato fiorito, se arriva il caldo, se cala il vento. Tutt’attorno decine di montagne talmente belle da togliere il respiro.
Montiamo la tenda un po’ in là, quasi a non voler rovinare l’incanto di questo luogo.
Tapovan è ultima tappa per i pellegrini: non per noi!
Alfredo vuole proseguire, fino ai piedi dello Shivling, venerato dai fedeli hindu.
Ho un po’ paura; è tanto che non vado in alta montagna, e neanche Alfredo.
“Sarà stupendo! Ci imbraghiamo bene, abbiamo ramponi, picozze… ho portato tutto. Nulla di cui preoccuparci. Se ti stanchi torniamo, promesso.”
Mi appoggia la mano sul ventre, anche se sa non si sente ancora niente, ma mi dà sicurezza.
Controlla l’attrezzatura, prepara gli zaini con cura; si prende lui i pezzi più pesanti.
“Domani si parte; poi il meteo potrebbe cambiare.”
20 marzo
Shivling, il lingam di Shiva! Una piramide verticale che si erge sopra la nostra tenda, sbattendoci in faccia i suoi 6500 metri con superbia e arroganza.
È vero, qui è stupendo, se non fosse per il vento che mi terrorizza. Ci ha coccolato al mattino, poi si è rafforzato, spingendo qualche nube ad attraversare veloce il cielo. La sera ci ha gettato sul viso fiocchi di ghiaccio, come minuscoli proiettili. Ora ulula e scuote la tenda. La gonfia fino a farla scoppiare, poi l’affloscia: sembra il respiro di un animale ferito.
Alfredo vuole di più: arrivare a toccare la roccia, dove la parete emerge dal ghiacciaio per erigersi verso il cielo. Non è molto distante; occorre salire solo un paio di cento metri ancora, anche se a queste altitudini non è così facile. Io no, non me la sento. Lo aspetterò qui, ma solo se il vento si placa. Mi terrorizza, l’ho già detto. Alfredo lo sa… altrimenti torniamo.
21 marzo
Sta facendo buio e lui non arriva.
Vado a cercarlo? Dove? Meglio stare qui.
Ho paura.
Della tenda sono rimasti solo inutili brandelli, strappati da violente folate.
Ho freddo.
Attendo rintanata nel sacco a pelo, riparata a stento da un cumulo di neve, scrutando l’orizzonte, nella speranza di vedere la luce della pila in lontananza.
Solo il volto è scoperto: il vento ne congela la guancia sinistra. Mi volto, ma poco dopo mi congela la destra.
Di tanto in tanto urlo, nella speranza di un ritorno: grida inutili, perse nel vuoto.
Il vento mi terrorizza, non il freddo; dal freddo so proteggermi. Si gelava stamattina quando è partito, ma era tutto immobile, sicuro. Poi ha iniziato a soffiare, forte, sempre più forte, fino a travolgermi, immersa in una bufera. Il vento ti strappa il calore di dosso, lo disperde nell’aria. Passa attraverso la zip del sacco a pelo fino a farlo diventare un palloncino. Entra nelle maniche della giacca a vento, risale dal risvolto dei pantaloni.
Ho freddo, non sento più le dita. Le muovo, fanno male, buon segno… credo.
Dovremo passare la notte qui… se arriva. Con lui ce la posso fare. Da sola?
O torno a chiedere aiuto? Non ne sarei capace e poi la notte è ormai qui. Quanto manca? Ogni minuto mi cresce l’angoscia.
Stai sveglia! Mi avvolge una sensazione di sonnolenza, di spossatezza: non è un buon segno… credo.
Silenzio
Questa di Marinella è una storia vera,
…
Premette STOP, prima ancora che il ritornello fosse finito. Si rialzò. Camminando lungo il corridoio riprese a piangere, fino all’uscita dall’ospedale.
26 marzo
Oggi l’ho visto, all’ospedale.
Sono stata mezz’ora a sbirciare dalla porta semiaperta della camera, prima di trovare il coraggio di entrare.
Lo odio.
Ha ucciso la mia bambina. Non è colpa sua? Forse… ma nulla me lo toglierà dalla testa.
Ci siamo guardati negli occhi, affogati nelle lacrime.
Non l’ho abbracciato, non gli ho parlato: ho solo cercato di fargli pervenire tutto il mio risentimento.
Mi ha allungato questo registratore; l’ho preso e le nostre mani si sono toccate. Ma quando ha aperto la bocca per parlarmi me ne sono andata correndo, singhiozzando nel corridoio. Sono sorda alle inutili scuse: si tenga il rimorso, che lo schiacci ogni giorno che campa. Ho perso una figlia, ho perso un nipote, io.
Riascoltare la voce di Marina è l’unica cosa che mi dà consolazione, fino a quella stupida canzone. L’ho cancellata, non sopporto la sua voce.
29 marzo
Sono stata chiusa tre giorni in albergo, facendo la spola tra la camera e il giardino. Delhi non mi interessa, gli indiani anche meno. L’unica volta che ho messo il naso fuori sono stata assalita da guidatori di tuk-tuk; sono subito rientrata a rifugiarmi nella hall.
Questo pomeriggio vado all’ospedale; me lo ha chiesto suo padre, distrutto anche lui.
“Gli hanno dovuto amputare tre dita”, mi ha detto piangendo. Cosa sono tre dita, ho pensato io.
È andato tutti i giorni all’ospedale, lui: è suo padre. Ora deve rientrare in Italia, ma fra una settimana torna a Dehli a riprendere Alfredo, per portarlo a casa appena lo dimettono.
Mi ha chiesto di ascoltarlo, solo una volta. Lo farò, lo devo a Marina, al suo amore per lui… ma a lui non devo niente, non di certo il perdono.
30 marzo
Ogni parola di Alfredo è stata una pugnalata.
La tormenta, all’improvviso. La perdita di ogni punto di riferimento. La mancanza di ossigeno che rallentava ogni passo, il gelo che bloccava i muscoli.
L’ha raggiunta a notte fonda, dopo avere vagato ore.
Si è sdraiato vicino a lei, sperando che quel poco calore che anche lui conservava gelosamente nel suo corpo compisse il miracolo. Inutile. Fino all’alba l’ha stretta a sé. Inutile.
Il resto non l’ho neanche sentito, con le frasi che entravano nelle mie orecchie ma vagavano vuote nel mio cervello.
Non so perché, alla fine l’ho abbracciato e abbiamo pianto.
Ci sono dolori che superano ogni odio: ci sono amori che superano ogni dolore.
4 aprile
È il 4 aprile.
Avresti compiuto 33 anni oggi.
Sono scesa lungo i gradini, i ghat, come li hai chiamati tu.
Ho immerso i piedi nella Madre Ganga, in mezzo agli altri fedeli, che vengono qui a Varanasi da tutte le parti dell’India, come a Haridvar, come a Gangotri.
Ho aperto la piccola urna con le tu ceneri lasciandole libere nell’aria.
E in quel preciso momento, un alito di vento, caldo e sincero, le ha portate in cielo, lontano, forse su una stella.