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Festa di compleanno

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Messaggio Da AurelianoLaLeggera Dom Set 15, 2024 8:51 am

Festa di compleanno

Una fortunata coincidenza aveva messo Alberigo di buonumore: il sabato di riposo e il compleanno di Dorica.
Non capitava spesso di riposare di sabato, ma era la metà di agosto e al magazzino c’era così poco movimento che il principale gli aveva detto: “Alberi’ riposati, ci rivediamo lunedì”. 
Così se ne stava seduto a un tavolo fuori dal bar a bere un Campari e il buonumore era tale che aveva pensato persino di regalare dei fiori a sua moglie. L’idea gli era venuta quando aveva visto Giorgio, il fioraio che stava lì sulla piazza, comporre mazzi per i clienti. Di solito lui, dal fioraio, ci andava una volta l’anno, a novembre, quando doveva andare al cimitero per la mamma, pace all’anima sua. 
Così con dieci euro era venuto fuori un mazzo che ci avrebbe fatto un figurone, con Dorica ma pure con Ionel e Ramona. E che cazzo, la vita dei signori gli faceva fare a quei tre, e non erano mai contenti! 
Quando fu l’ora di tornare a casa, mentre rimirava i fiori, pensò che, se pure, in una giornata così, avesse bevuto un bicchiere di vino a pranzo sua moglie non si sarebbe arrabbiata. Anzi, un bicchiere se lo sarebbe potuto bere pure lei, una volta tanto. Così si era fermato al discount e aveva preso una bottiglia di rosso da tre euro e quarantanove. Non erano mica poche per un vino, tre euro e quarantanove, ma se dovevano festeggiare dovevano festeggiare.
‘Certo il fuori busta sarà più risicato ‘sto mese, e qua se mettemo pure a compra’ i fiori, il vino…’ pensò mentre rimontava in macchina già pentito. 
Invece ne era valsa la pena. Era rientrato con il mazzo di fiori, spedito, e lei aveva fatto una faccia che si era capito subito che era contenta, pure se cercava di non darglielo a vedere. 
“E questi che so’? Che t’è successo?”
“Auguri!” aveva risposto lui mentre allungava il braccio fino a metterle il mazzo sotto al naso. 
Lei aveva strofinato le mani sul vestito stinto che portava per casa, aveva preso i fiori e ci aveva quasi affondato la faccia. 
Profumavano! Pure lui si era messo a odorarli, mentre saliva le scale. Se rimanevi fermo in quel modo per un po’, il profumo ti entrava dentro e ti faceva scordare persino l’odore delle verdure che bollivano; che d’inverno ti scaldava pure quell’odore, ma d’estate non se ne andava mai e s’immischiava con quello del sudore. 
Quando lei riemerse si accorse del vino che Alberigo teneva ancora nell’altra mano.
“E quello? Che devi fa?”
“Oggi se festeggia, te lo devi beve pure te un goccetto.”
Lo sapeva che non si sarebbe arrabbiata, infatti non gli aveva detto niente. Anzi, aveva tirato fuori dalla credenza della sala un vaso di vetro e ci aveva sistemato i fiori che, una volta sciolto il mazzo, dentro quel vaso un po’ troppo largo, perdevano parecchio. 
Il pranzo era quasi pronto, Ramona era sbucata dalla cameretta e Ionel era rientrato a casa dal cantiere, almeno a giudicare dai vestiti schizzati di vernice che metteva sempre quando lavorava. Non era festa per tutti, evidentemente.
Dorica aveva apparecchiato in cucina, che era stretta e lunga e ci stavano appena, in quattro. Avrebbero potuto mettersi nella sala, almeno per quel giorno, aveva pensato Alberigo. 
Mangiarono in silenzio, i due ragazzi con la faccia dentro al piatto e Dorica in pizzo sulla sedia sempre pronta ad alzarsi per fare qualcosa: abbassare il gas, spostare una pentola, sciacquare una forchetta caduta per terra. Non aveva niente della festa quel pranzo lì e la pasta come al solito era scotta. Tutti questi anni che stava in Italia e ancora non se l’era imparato che la pasta andava scolata prima. 
Per fortuna il primo bicchiere l’aveva rimesso di buonumore. 
Quanto era buono quel vino. Lo sapeva che sarebbe stato buono, con quello che lo aveva pagato! 
Ionel non l’aveva neanche toccato: “Vacce piano col vino Alberi’, ché poi fai i danni” gli aveva detto.
“È ‘n bicchiere! E che me so bevuto?!” aveva risposto lui. Poi era stato quasi per dire a Dorica di dire al figlio che gli doveva portare rispetto, perché pure se non era il padre non se lo doveva scordare che era stato lui a crescerli, a tutti e due. Ma poi era stato zitto, non se la voleva rovinare quella bella giornata.
“Tu lo voi un goccetto a papà?” Aveva detto a Ramona, lei almeno lo faceva lo sforzo di chiamarlo “papà”.
“Lasciala perde la regazzina, è piccola per il vino” aveva protestato Dorica.
“Ma se cià quindicianni?”
E il secondo bicchiere era andato giù. 
Il terzo se l’era riempito alla fine del pranzo, solo dopo che Ionel se n’era già andato, perché doveva tornare al cantiere, aveva detto. 
E con la fine del pranzo era arrivata pure la fine della festa.
Festa!
Tutta quella specie di felicità che aveva sentito, quella sensazione di pace e di serenità, che credeva di aver provato quella mattina, non c’era più. Sparita. Forse andata via col sudore, oppure coperta dalla puzza di spinaci che ormai gli si era appiccicata addosso. Via pure il buonumore, nonostante il terzo bicchiere. Buttati via quasi quindici euro per niente. 
“Fa’ il caffè.” Aveva detto secco alla moglie.
Dorica si era alzata, aveva cominciato a togliere le cose dal tavolo e poi si era rivolta alla figlia:
“Dà una mano, forza.”
Ramona aveva continuato a sparecchiare mentre lei caricava la macchinetta da mettere sul gas.
Alberigo le guardava accasciato sulla sedia, con un dito spostava molliche di pane sulla tovaglia. Passò il piatto vuoto a Ramona che gli toglieva le cose da davanti. Si stava facendo grande, una donnina ormai.
“Ramo’! Hai visto papà che bei fiori gli ha comprato a mamma?”
“Si, papà, l’ho visti. So’ belli” aveva risposto lei.
“Quando è il compleanno tuo papà te li regala pure a te, i fiori.”
Dorica, che aveva appena acceso il fuoco piccolo per il caffè, si girò di scatto verso Alberigo. Disse a Ramona di andare che avrebbe finito lei, mentre aspettava che il caffè venisse su. 
“Che è ‘sta faccia? Non je posso comprà i fiori pure a lei? Aspetta, dai ‘n bacetto a papà prima che te ne vai.” 
Ramona aveva appoggiato l’ultimo bicchiere nel lavandino, s’era sciacquata le dita e s’era asciugata con lo straccio appeso allo sportello.
“No papà, non te lo do il bacetto.”
Poi era sparita in cameretta e si era chiusa la porta a chiave. C’era stato qualche secondo di silenzio. L’effetto dei fiori se n’era andato prima del loro profumo, quello del vino, invece, era appena cominciato.
Dorica riempiva uno dei lavelli con l’acqua calda, aveva le mani bagnate e insaponate. Chiuse l’acqua e si girò ancora verso Alberigo:
“Se io ti vedo che tocchi la regazzina ti ammazzo” Aveva detto, a voce bassa. 
Alberigo s’era addrizzato sulla sedia, aveva tirato forte l’aria col naso ed era rimasto così, col petto gonfio per qualche secondo.
“Ma pe’ chi m’hai preso?” disse, “Ma ancora co ‘sta storia?” 
Si sentiva crescere dentro qualcosa che gli alzava il tono e il volume della voce, e gli arrossava le guance, e gli accorciava il respiro. 
“Ma ‘n padre non pò dà ‘n bacetto a ‘na fija?”
Lei lo fissava ancora. Dura.
“Possibile che ‘n padre non pò dà ‘n bacetto a ‘na fija? Te pensi che so tutti come tu’ zio? Oh!” 
Sempre più grossa, quella cosa dentro. 
“Mo, perché tu’ zio te metteva le mani addosso, te pensi che so tutti così l’omini?”
“Sta zitto che te sente Ramona, sta zitto!” disse lei, con la mano a coprirsi la bocca, come se bastasse quello a non farle arrivare le urla.  
Alberigo bestemmiò. Una volta, poi una seconda.
“Pe chi cazzo m’hai preso, io vorrei sape’!” Urlò alzandosi dalla sedia che andò a sbattere sul mobiletto dietro di lui, quello dove stava il televisore piccolo. 
Dorica era indietreggiata, un passo soltanto, poi si era girata verso il lavandino. 
Le posate sporche stavano ancora lì, sullo sgocciolatoio. Allungò una mano verso il coltello, quello più grosso. Lo afferrò stretto, glielo avrebbe puntato al collo stavolta. Nel movimento la punta urtò un bicchiere. Che cadde a terra.
Il bicchiere rimbalzò sul pavimento, colpì una gamba del tavolo e cominciò a girare vorticosamente su sé stesso. Alberigo e Dorica fecero un salto all’indietro, d’istinto, poi rimasero a fissare il bicchiere e quella sua rotazione quasi ipnotica. Girava sempre più lentamente, fino a che non rotolò, per un breve arco, fermandosi contro il piede di Dorica.  
Esattamente in quell’istante, il gorgoglio della moka e l’odore del caffè invasero la piccola cucina, stretta e lunga. 
Il mostro che Alberigo si era sentito crescere dentro sembrava non esserci più. 
Sputato fuori con le bestemmie, o, forse, annegato in quel caffè nero che saliva, borbottando, dentro alla macchinetta. 
Riprese a respirare lento, aggiustò la sedia sotto al tavolo, poi prese a massaggiarsi lo stomaco, con la mano sotto alla maglietta.
“È…” esitò. 
“È uscito il caffè” disse infine. 
Dorica, che aveva già mollato il coltello, si chinò a raccogliere il bicchiere e lo poggiò di nuovo sul lavandino, accanto agli altri bicchieri e alle posate sporche.
Alberigo l’aveva visto il coltello, stretto nella mano, ma non era per quello che s’era fermato. 
Aveva sempre questa sensazione che prima o poi sarebbero andata così. O lei, o Ionel, gli avrebbero dato una coltellata dopo l’ennesima litigata stupida, magari per la pasta scotta. Oppure l’avrebbe ammazzata lui, e allora poi si sarebbe ammazzato da solo. 
Era come se una fine tragica fosse l’unico modo per uscire da quella galera che era la vita sua. L’unico modo. 
A meno che non decidevi di scontarla tutta sta condanna, e ti facevi bastare un bicchiere di vino, o un caffè dopo mangiato. 
Poi la porta della cameretta si aprì, Ramona uscì e subito entrò in quella del bagno.
Aveva sempre quei fili che le uscivano dalle orecchie e finivano sul cellulare. Ci sentiva la musica, così alta che se la chiamavi nemmeno ti sentiva. Di sicuro non si era accorta di niente.
Era bella Ramona, somigliava a Dorica ma senza ancora i segni dei poveracci. La pelle liscia, i denti ancora tutti bianchi. 
“Magari lei sta ancora in tempo.” Pensò. “Magari grazie a quello stronzo de Ionel, che sta sempre a lavorà, riesce pure a combinà quarcosa de bono.”  
Lasciò la tazzina sporca sul tavolo. Dorica stava sempre di spalle, sciacquava qualcosa nel lavandino, si muovevano solo le braccia. 
“Me vado a mette un po’ sul letto” le disse.
Lei non rispose, forse non l’aveva neanche sentito. L’acqua, come tutto il resto, continuava a scorrere.
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Messaggio Da tommybe Dom Set 15, 2024 9:13 am

Lo leggerò più tardi 

A dopo
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Messaggio Da Claudio Bezzi Dom Set 15, 2024 9:18 am

Mi è piaciuto molto. C’è spessore dei personaggi, un buon ritmo, il climax e un giusto finale. Mi sembra tutto ben bilanciato. La scrittura mi sembra abbastanza sorvegliata tranne queste mie personali annotazioni.
Bravo.
  • “mentre rimirava i fiori, pensò che, se pure, in una giornata così, avesse bevuto…”; forse almeno una virgola di troppo?
  • “… e s’immischiava con quello del sudore”; ‘immischiare’ non mi pare una scelta opportuna perché implica una intromissione indebita, invece tu intendi che si amalgamava, si fondeva col sudore.
  • “Ma se cià quindicianni”; sono certo che hai scritto ‘cià’ consapevolmente ma - opinione personale - lo trovo molto sgradevole perché non esiste il verbo ‘ciavere’ come segnala Treccani (https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/domande_e_risposte/grammatica/grammatica_784.html) che spiega come non ci sia alcuna soluzione accettabile. Detto questo, per quanto poco conti, io preferirei ‘c’ha’ (altrettanto bocciato da Treccani).
  • “si era rivolta alla figlia:” Tu dopo vai a capo aprendo le virgolette con la frase della donna. Probabilmente ti è sfuggito ma non puoi andare a capo dopo i due punti; andava semplicemente scritta la frase della donna di seguito.
  • “Si, papà, l’ho visti.”; ‘sì’ accentato.
  • “…tocchi la regazzina ti ammazzo” Aveva detto,…”; serve il punto dopo ‘ammazzo’.
  • “Pe chi cazzo m’hai preso”. Poiché hai messo tutti gli apostrofi alle elisioni mettilo anche a ‘Pe’. Idem per “sta condanna”.

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Messaggio Da AurelianoLaLeggera Dom Set 15, 2024 3:57 pm

Innanzi tutto grazie per i complimenti. Li apprezzo molto perché mi pare che i tuoi complimenti non siano mai gratuiti, e questa è una cosa che mi piace.  

Per le varie segnalazioni:
“mentre rimirava i fiori, pensò che, se pure, in una giornata così, avesse bevuto…”; forse almeno una virgola di troppo?        Credo che tu abbia ragione, magari dopo il "che" potevo toglierla.

… e s’immischiava con quello del sudore”; ‘immischiare’ non mi pare una scelta opportuna perché implica una intromissione indebita, invece tu intendi che si amalgamava, si fondeva col sudore. 


Ci può stare. Il racconto è in terza persona ma il punto di vista è molto incentrato su Alberigo, mi piaceva il suono. Però probabilmente hai ragione tu.

"cià quindicianni"   Quì, come hai detto tu, e come segnalato anche dalla Treccani, non esiste un modo corretto di scriverlo ma io sinceramente lo preferisco a "c'ha". Ho cominciato a scriverlo così dopo aver letto un libro di Massimo Birattari anche se ora non ritrovo il punto. Gadda scriveva "ciò" Pasolini e Moravia "c'ho" (cito da un articolo). Comunque la questione è aperta.

“si era rivolta alla figlia:” Tu dopo vai a capo aprendo le virgolette con la frase della donna. Probabilmente ti è sfuggito ma non puoi andare a capo dopo i due punti; andava semplicemente scritta la frase della donna di seguito.  
Vero, potevo scriverlo di seguito. Dopo la tua segnalazione però sono andato a cercare un po' (benedetto DT) e devo dire che non è vietato andare a capo dopo i due punti. Io avevo reminiscenze dei dettati alle elementari, mi sembra di sentire ancora la voce della maestra: "Duepuntieaccapoapertelevirgolette...". Ricordo male io?

“Si, papà, l’ho visti.”; ‘sì’ accentato.
“…tocchi la regazzina ti ammazzo” Aveva detto,…”; serve il punto dopo ‘ammazzo’.
“Pe chi cazzo m’hai preso”. Poiché hai messo tutti gli apostrofi alle elisioni mettilo anche a ‘Pe’. Idem per “sta condanna”.     Su questi hai ragione senza alcun dubbio: distrazioni!


Grazie davvero per queste segnalazioni. Proprio per avere questo scambio mi sono iscritto a DT.
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Messaggio Da M. Mark o'Knee Dom Set 15, 2024 6:55 pm

Proprio un bel racconto, Aureliano. Mi unisco ai complimenti di Claudio, che ha già detto tutto per quanto riguarda personaggi, atmosfera, climax e finale.
Aggiungo che ho apprezzato molto il modo in cui hai fatto stemperare la tensione fra Alberico e Dorica, con quel coltello che anziché ferire (o peggio) fa soltanto cadere un bicchiere. E il bicchiere, invece di rompersi in mille pezzi, rimbalza e rotola e attira l'attenzione con la "sua rotazione quasi ipnotica"; poi, via via che rallenta, "quella cosa dentro" di pari passo si scioglie. Una gestione del climax, secondo me, di tutto rispetto.
Un paio di annotazioni sui termini segnalati.
- "immischiava" in effetti stona, non è romanesco: potevi invece usare "ammischiava";
- sulla questione ciò/c'ho direi che non c'entra niente il verbo "ciavere", semmai il romanesco "avecce", come ben spiegato qui http://www.accademiaromanesca.it/node/235
Grazie e alle prossime letture.
M.

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Messaggio Da Petunia Dom Set 15, 2024 7:08 pm

Un racconto scomodo, che lascia addosso un senso di malessere, d’impotenza. Non c’è un eroe, un vincitore. Il personaggio subisce una sorta di involuzione man mano che si procede con il racconto, e trascina con sé il lettore nella sua piccola vita grama. Non c’è speranza per questa famiglia, non s’intravede una via d’uscita o uno spiraglio di serenità futura. Cruda e fin troppo realistica rappresentazione di una delle tante realtà che vorremmo non ci fossero, che vorremmo non sapere. Scomode, appunto. In questo il testo mi pare ben riuscito e se volevi fare un racconto di denuncia o mettere il lettore in condizione di immergersi in questo tipo di realtà, ci sei riuscito.

L’introduzione del dialetto aiuta a rappresentare l’ambiente in cui si svolge la storia ma personalmente non mi ha fatto impazzire. L’ho trovato un po’ stereotipato. Credo che anche tu non lo avessi usate (i te do le espressioni dialettali o pseudo dialettali) avresti ugualmente raggiunto lo scopo e con più forza. Bastavano i nomi dei protagonisti e le descrizioni degli ambienti  per lasciare il lettore immaginare il loro tipo di eloquio.
In questa frase rivedrei la punteggiatura (dopo la parola pure non la metterei, e, comunque, i periodo appare poco scorrevole nell’insieme). Puoi semplificare molto e rendere la frase più leggibile.
Quando fu l’ora di tornare a casa, mentre rimirava i fiori, pensò che, se pure, in una giornata così, avesse bevuto un bicchiere di vino a pranzo sua moglie non si sarebbe arrabbiata. 

La storia potrebbe finire così, con la tristezza immensa dei vinti dal destino. Un uomo, Alberigo, di cui non sappiamo molto. 
Ha sposato una donna straniera che aveva già due figli. Perché lo ha ha fatto? Chi è Dorica? C’è stato mai vero amore tra i due? 
In tutto lo squallore che si respira, manca la storia, quella vera, quella che fa capire e commuovere. È come se avessi letto solo una piccola parte di un progetto più grande. Chi è Alberigo? Perché si trova nella condizione che descrivi? Dove lo porterà il suo atteggiamento? Avrà una epifania oppure la storia è destinata a divenire uno dei tragici trafiletti che riempiono la cronaca nera dei nostri tempi? 
Questo mi è mancato e con la bravura che dimostri nel mostrare le scene, penso che potresti regalarci ulteriori passaggi.   @AurelianoLaLeggera
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Messaggio Da Albemasia Dom Set 15, 2024 11:52 pm

Un racconto potente, che parte quasi in sordina e cresce in un climax di tensione che alla fine stempera nella frase finale che mi è piaciuta moltissimo: "L'acqua, come tutto il resto, continuava a scorrere".
Forse impropriamente, ma i personaggi , soprattutto Alberico, in qualche modo mi hanno richiamato alla mente i vinti di Verga. Altra ambientazione, certo, altro stile..., però quella sensazione di ineluttabilità è chiara e pervade il racconto, soprattutto nella parte finale.


Per quanto riguarda i rilievi più tecnici, personalmente ho apprezzato l'utilizzo delle forme dialettali, che sono comprensibilissime e, a mio parere, connotano molto bene l'ambiente in cui si svolge la scena. Mi pareva quasi di vedere lo squallore della cucina, i volti sfioriti di Dorica e Alberico, di sentire l'odore delle verdure cucinate e il rumore del caffè che gorgogliava nella moka. Credo che l'utilizzo dell'italiano nei dialoghi avrebbe tolto parte di queste connotazioni.

L'imperativo del verbo dare nella frase: "Dà una mano, forza", va scritta con l'apostrofo: "Da' (dai) una mano, forza" e non con l'accento.

Quanto all'utilizzo della forma cià/c'ha, personamente quando mi è capitato di doverla usare ho sempre preferito la forma "ci ha", che consente di leggere la "c" palatale. 
Tuttavia ho trovato questa interessante dissertazione in proposito sul sito dell'Accademia della Crusca:


"La trascrizione delle forme flesse di averci non è uniforme. Le varietà grafiche in uso risultano almeno cinque. 
La soluzione c'hoc'haic'hac'hanno (nonché c'abbiamo o c'avemoc'avetec'avevo e le altre voci del verbo inizianti con a-) predomina tradizionalmente nel registro linguistico basso ma, nota il lettore Losavio, oggi si legge persino «su testi di narrativa e sulle didascalie televisive». 
La soluzione ci hoci haici ha e seguenti risulta preferita da studiosi e cultori dell'italiano, nelle trascrizioni del parlato e nelle trattazioni linguistiche. 
Invece la soluzione c(i) hoc(i) haic(i) ha e così via è d'uso ristretto e d'ambito elevato; 
altrettanto si può dire del tipo cj hocj haicj hacj abbiamo e così via. Non va trascurata infine la soluzione ciòciàicià e così via, che oggi appare relegata nel livello basso della scrittura.
Ora, nessuna di queste soluzioni appare del tutto soddisfacente
e il tipo ciòciàicià appare anzi sguaiatamente "dialettale", oltre che equivoco, per lo meno nella forma ciò
Alla grafia tipo c'ho va rimproverata l'anomala resa grafica della pronuncia palatale di c seguita da h oppure a, mediante l'attribuzione all'apostrofo di un'inconsueta funzione diacritica. 
Il limite del tipo ci ho è prodotto dal fatto che la conservazione della lettera i induce a pronunciare  una vocale che «non si ritrova nel parlato»
Invece la grafia  tipo c(i) ho, che ricorre in circuiti culturali elevati, trascrive correttamente il parlato, ma appare difficilmente praticabile nell'uso comune, in quanto gravata dalla parentesi, che è artificio alquanto ingombrante, oltre che insolito.
Resta la soluzione tipo cj ho: l'impiego della lettera j con funzione diacritica è sì anomalo, ma ha i pregi di non ingenerare equivoci e di non apparire ingombrante oltre misura. La sua adozione è recente e finora limitata alle trascrizioni e ai saggi dei linguisti "
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Messaggio Da AurelianoLaLeggera Lun Set 16, 2024 8:35 am

Grazie davvero a tutti per i complimenti.
Mi fate credere che sia riuscito a trasmettere qualcosa, e questo era il mio desiderio più grande. 

Vi ringrazio anche per tutte le questioni tecniche sollevate e per avermi fatto notare gli errori commessi.

Sull'uso del cià rimango della mia idea, vista anche la dissertazione sull'Accademia della Crusca:

Ora, nessuna di queste soluzioni appare del tutto soddisfacente; 
e il tipo ciò, ciài, cià appare anzi sguaiatamente "dialettale",


Ed effettivamente il mio cià intendeva essere proprio sguaiatamente "dialettale".


Grazie ancora!
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