Sono cieco.I miei occhi devono essere orrendi, forse sono ricoperti da una patina bianca, cosparsi di cispe. Vacui. Di sicuro la mia espressione è stanca.
Ci sono delle cose che mi mancano. Soffro di non poter più ammirare il mare o di non godere della compagnia dei libri. Vicino al mare ci abito, sento il rumore della risacca, il puzzo delle alghe che si decompongono e c’è sempre qualcuno disposto a leggere per me, ma è così, certe cose mi mancano.
Passeggio spesso sulla spiaggia, il bastone che si infila nella sabbia, il cane che mi urta le gambe, una domestica che mi sostiene. La salsedine e il sudore mi appiccicano i capelli sulla fronte, li sento duri come paglia secca. Delle volte tolgo le scarpe e immergo i piedi nell’acqua, qualche piccolo pesce si ciba della pelle morta dei miei talloni.
Di solito arrivo fino agli scogli, oggi invece mi faccio portare al molo, sto aspettando qualcuno.
«Trovo incredibile» dico alla domestica, «questa cosa che gli uomini e il mare siano così simili. Abbiamo lo stesso ritmo: onda, pausa, onda. Respiro, pausa, respiro. Quando siamo agitati il respiro è in burrasca, quando siamo calmi il respiro è in bonaccia. Quando qualcuno ci culla, come fa il mare, dobbiamo stare attenti, perché potrebbe inghiottirci e farci affogare.»
Un tonfo, presumo sia la barca che accosta, delle risate femminili, imbarazzate. C’è stata una folata di vento improvvisa, magari la sottana si è alzata scoprendo le caviglie oppure il cappellino stava per volare via. Oppure le risa, dopo quello che è successo, sono ancora inopportune.
«Professore!»
Una voce roca, erosa dal fumo, che si avvicina.
«Riccardo, finalmente siete riusciti a venire» dico, sento il tocco di una mano delicata.
«Lei è Smeralda, mia moglie.»
«Esmeralda o Smeralda?»
«Senza la e» risponde lei. Ha una bella voce, pulita, senza accento. Mi inchino, le porgo la mano e lei vi posa su la sua. Un guanto in seta, lo sfioro con le labbra. Ha le dita minute, da bambina.
«Lei è sempre uguale, professore, non sembra invecchiato di un giorno da quando ha lasciato Roma» dice Riccardo.
«Immagino valga lo stesso per te, ma non posso accertarlo» mi indico gli occhi e sorrido.
«Mi scusi, non volevo…»
«Non sentirti in imbarazzo, ragazzo mio, puoi dire e fare quello che ti pare, siamo qui per divertirci e poi non dimenticare, questa sera, anche se solo per poche ore, perderete la vista anche voi.»
«Già, abbiamo bisogno di distrarci, insomma…»
Sento un sospiro, soffocato dall’educazione.
Il cane abbaia alla barca che s’allontana.
L’idea della cena al buio mi è venuta in un attimo di pace, mentre stavo seduto nel soggiorno, accanto alla finestra aperta. Il grammofono aveva smesso di suonare e non avevo voglia di arrancare fino al mobiletto per far ripartire la musica né di chiamare un domestico. Entrava una leggera brezza, piacevole, e sentivo gli uccelli cercarsi tra le fronde dei larici. Giungeva il vociare delle donne al lavoro nei forni e arrivava anche il profumo del pane, così forte da farmi venire fame. Ho immaginato di tenere una pagnotta calda tra le mani, di schiacciarla e sentire il suono della crosta mentre si frantumava, la fragranza uscire fuori dalla mollica bollente, il vapore sul viso. Ho pensato a quanto in effetti fosse sopravvalutata la vista e a quanto sarebbe stato divertente organizzare una cena dove tutti i commensali fossero costretti a mangiare al buio, senza vedere cosa in realtà avessero di fronte.
Si stenta a credere che questa sia la verità, che tutto è nato come un’idea innocente. Il fatto è che in quel momento, chi da tempo immemore abita la casa mi ha parlato e mi ha detto delle cose terribili. Cose che non potevo ignorare.
La biblioteca è stata uno dei motivi che mi hanno convinto a comprare questa casa. È un semicerchio che s'affaccia sul mare, con una grande scrivania posta davanti alle vetrate e numerosi scaffali carichi di libri antichi che ho acquisito con l'immobile. Gli eredi del vecchio proprietario, il Conte D'Angeli Maurizi, non volevano più avere a che fare con nulla che riguardasse il loro avo e me li hanno praticamente regalati. Alla luce dei fatti, passati, presenti e futuri, non posso certo biasimarli.
Mi piace dunque passare del tempo in biblioteca; anche se non posso più vederli, i libri sono sempre una gioia per me, sono stati i miei unici compagni di vita, mi basta saperli vicini, toccarli, sentirne l'odore.
«Ci sarà dunque un altro ospite» dice Riccardo. Lo sento camminare piano, probabilmente sta controllando i titoli dei volumi negli scaffali. È sempre stato un ragazzo curioso, fin da quando era mio allievo. Ho due ricordi nitidi di lui: chino a leggere, con la mano dentro il ciuffo chiaro a sorreggere la fronte e impettito, con il cappello a tre quarti e la sigaretta accesa.
«Forse lo conosci» rispondo, «si tratta di Sauro Cortesi, uno dei funzionari del ministro Ciano.»
«Certo che lo conosco, è un caro amico del padre di Smeralda. Siete in buoni rapporti?»
«Discreti. Dopotutto in certi ambienti ci si conosce un po' tutti.»
Allungo le gambe sotto la scrivania, il sole che entra dalle vetrate mi scalda il viso. Lo scatto di un accendino, l'odore del fumo di sigaretta.
«Sono venuto a chiederle un favore» mormora Riccardo.
«Tutto quello che posso.»
«Sembrerò uno sciocco, ma devo chiederle di non far venire più i domestici in camera nostra…»
«È successo qualcosa?»
«No, no. È che… come posso dire? Smeralda ha timore di loro. Non so, neanche a me piacciono a dire il vero, sembrano tutti simili, non riesco a distinguerli l'uno dall'altro. Sarà magari perché sono imparentati, eppure…»
«Io non li vedo, quindi non posso aiutarti» sogghigno, «ma dirò loro di non darvi fastidio.»
Riccardo tossisce, si rimette a sfogliare un libro. Non sento più il sole sul viso, deve essersi rannuvolato.
Non mi sono mai sposato, non ho avuto figli e non ne ho mai sentito la mancanza. Ho avuto decine di allievi e mi sono bastati loro. Per molti sono stato più presente dei genitori, dopotutto.
Ho lasciato presto l'insegnamento al liceo e grazie alle conoscenze di mio padre ho iniziato a fare da precettore nelle case dell'alta borghesia romana. Riccardo è stato uno dei ragazzi a cui più mi sono affezionato, un finto strafottente, pieno in realtà di insicurezze e buono di cuore. Non meritava certo ciò che gli è successo, nessuno lo meriterebbe, ma lui in particolare. Spero che questa serata gli sia d'aiuto. Anzi, sono sicuro che lo sarà.
La casa è alla fine di un promontorio a picco sul Tirreno. C'è una stradella che dal giardino cala sulla spiaggia, nell'ultimo tratto sono stati scolpiti dei gradini nella roccia friabile. La tenuta, con le vigne, i campi di grano, gli oliveti e le piante da frutto, è autosufficiente. È così da quando è stata costituita, alla fine del cinquecento.
Non ci sono strade percorribili in auto per arrivare fin qua, c'è un antico tratturo che è stato in parte cancellato dal bosco. Chissà, oltre all'innegabile bellezza dei luoghi, potrebbe avermi spinto a comprarla proprio il suo isolamento. E certo, anche il prezzo di vendita ha fatto la sua parte. Gli eredi del Conte, suoi nipoti da parte materna, volevano disfarsene in fretta e dimenticare. Dopotutto, ciò che in questa casa è accaduto è un'onta tremenda per il nome della famiglia.
Conosco la storia per l'eco che ne è arrivata a Roma e per qualche particolare che si sono lasciati sfuggire gli eredi stessi. Il Conte impazzì, d'improvviso, e uccise la moglie. Si gettò poi dal promontorio e morì, schiantandosi sugli scogli. I Carabinieri che arrivarono il giorno dopo trovarono i resti dell'ultima cena del Conte ancora sulla tavola. Stava mangiando la donna che aveva ucciso.
«Sei in ritardo» dico, mentre faccio segno al domestico di lasciarci soli.
«Si è alzato il vento e la barca ha dovuto allungare tenendosi vicino alla costa» biascica Sauro. Ha sempre avuto l'abitudine di parlare piano e masticare le lettere, come se non gli importasse davvero di essere compreso. «Il tuo invito mi ha fatto davvero piacere. Ho dovuto penare per riuscire ad avere due giorni liberi, ma avevo proprio bisogno di lasciar perdere per un attimo tutti i casini che stanno succedendo.»
«Quali casini?»
«In Polonia si sta preparando qualcosa di grosso. La Germania preme ai confini e ha bisogno solo di una scusa per attaccare. Al ministero non si dorme da giorni e sono saltate le ferie d'agosto per tutti e ormai oggi è il trentuno ed è tardi. È un brutto momento.»
«Per via delle ferie saltate?»
«Per via di un possibile nuovo conflitto mondiale. Ma com'è possibile che non sai niente?»
«Qui non arrivano i giornali e non ho la radio.»
«Sei diventato un eremita?»
«No, ma mi piacerebbe.»
«Ti sei sistemato proprio bene, comunque. È una casa enorme. E tutta questa servitù… come puoi pagarla?»
«In realtà sono pochi quello che pago, coloro che lavorano qua sono i figli dei mezzadri e l'ho risolta azzerando gli affitti per i genitori. Siamo una comunità, più o meno.»
Sauro ride, sento un tintinnare di bicchieri.
«Posso?» chiede.
«Serviti pure.»
L'odore dell'alcool riempie il soggiorno.
«La casa è bella» continua Sauro, schioccando la lingua per assaporare il liquore, «ma santo Dio, Giovanni, è così…»
Borbotta qualcosa che non capisco, probabilmente mi dà le spalle. «E questo corridoio… è lunghissimo.»
«Inizia qua, in soggiorno, e percorre tutta la casa, che come hai visto ha solo un piano.»
«Ma là, più avanti, sembra fare delle svolte, incredibile.»
«Si biforca. Da una parte porta agli alloggi dei domestici, dall'altra alle cucine. Proseguendo dritti si va alle camere da letto.»
«Sembra un labirinto.»
Sorrido. L'ho pensato anche io, la prima volta che l'ho visto. Per accedervi dal soggiorno si passa sotto un grande arco a sesto acuto, decorato con fregi e piccole sculture. E si perde nel ventre della casa, senza finestre, le porte scure di stanze che apriamo raramente. L'arco sono fauci, il corridoio è una gola. È il passaggio tra la nostra realtà e qualcos'altro, qualcosa che abitava in questi luoghi probabilmente da prima che la casa venisse costruita e che ora la occupa.
«L'altro ospite è un mio ex allievo, Riccardo Bordi, probabilmente lo conosci» dico, d'improvviso.
«Il figlio del console?»
«Sì.»
«Ma c'è anche Smer… cioè, anche sua moglie?»
«Certo.» Sauro tace, sento l'assito del pavimento gemere sotto il suo peso mentre si muove nervoso su e giù per la stanza. «Hanno avuto un grave lutto, sai, hanno perso da poco la loro bambina. È soffocata nel suo lettino, mentre dormiva. Si chiamava Pandora. Non aveva nemmeno due anni e…»
«Lo so, conosco la storia» sbotta Sauro. Bofonchia anche qualcos'altro, ma non lo capisco.
«Hanno bisogno di distrarsi» concludo, «hai qualche problema? Ti sento strano.»
«No, niente, lascia stare.» Il tonfo del bicchiere sulla credenza. «Fammi accompagnare in camera, Giovanni, ho paura di perdermi in questo corridoio.»
Sei già perso, amico mio.
C'è un ritratto del Conte in soggiorno. L'ho studiato e rimirato così a lungo che anche ora, che non posso più vederlo, è come se lo avessi davanti.
È in tenuta da caccia, verde scuro, il fucile a tracolla. Gli occhi grigi, lontani. È stato ritratto proprio qua, in soggiorno, con il corridoio alle spalle, l'arco d'accesso scuro, come se lo stesse per inghiottire. Il pittore aveva visto qualcosa durante le lunghe ore di osservazione e lo aveva messo sulla tela.
Avvicinandosi al quadro, difatti, negli angoli bui, si vede qualche minuscola macchia di luce. Sembrano occhi. Io so di chi sono. E mi chiedo quali cose tremende i proprietari di quegli occhi luminosi abbiano raccontato al Conte sulla povera moglie.
Ho fatto coprire le finestre con pesanti tende di feltro, anche se ha iniziato da poco a piovere e non ci saranno in cielo né stelle né luna, non voglio che nella stanza ci sia il minimo bagliore.
I due domestici che ci dovranno servire hanno ai polsi delle campanelle, per avvisarci della loro presenza.
I miei ospiti sono stati accompagnati ai loro posti. Qualcuno tasta la tavola, si sente il tintinnare delle posate. Smeralda si lascia scappare una risata nervosa.
«Se riesco a trovare il vino non avrò bisogno d'altro» dice Sauro.
Sentiamo le campanelle e un piatto viene deposto davanti a noi. Dal profumo non si capisce cosa sia, è quasi inodore. La consistenza in bocca è gelatinosa, è fresco, c'è l'aspro dell'aceto, uova, il croccante del sedano. Una parte consistente, più unta, carne di manzo.
«Sono certo che questa cena riuscirà, letteralmente, ad aprirvi gli occhi.» dico, «già, perché è dall'assenza che impariamo. Per me è stato così, ho capito cos'era in realtà la vista nel momento esatto in cui sono diventato cieco. Del resto cos'è davvero l'acqua si impara quando si ha sete e cos'è la pace lo si evince dai racconti di battaglia. Dunque, vi piace ciò che state mangiando?»
«È davvero strano» dice Smeralda, «insomma, è buono, ma non so cos'è e mi sento frenata… sembra, non ridete vi prego, sembra un occhio.»
«Un occhio?»
«Un occhio gigante.»
«Per la gelatina?»
«Mi blocca.»
«Mangia tranquilla tesoro» dice Riccardo, «è un aspic. Almeno spero.»
Sauro rimane in silenzio, lo sento masticare, alla mia destra, sia cibo che mugugni.
Le campanelle, i piatti vuoti vengono tolti dalla tavola, arriva una nuova portata.
«Ora lasciatevi andare, sul serio, mettete da parte le ultime remore. Non pensate solo a ciò che potreste avere nel piatto, immaginate di essere in un altro luogo, dove volete. Potete farlo, non vedendo dove siete, potete essere dappertutto.»
Il profumo che arriva dal piatto è intenso, di sottobosco, funghi porcini, ginepro. Al taglio è croccante, si rompe come un guscio d'uovo. In bocca è resinoso, c'è un leggero retrogusto di affumicato. Ha un ripieno che risulta morbido e liscio, leggermente acido. Salvia, formaggio di capra, frutta disidratata.
«Ci troviamo in un bosco. Pini, abeti rossi. Se prestate attenzione tra i rami potete vedere degli occhi curiosi che ci spiano. Uno scoiattolo?»
«In effetti sembra corteccia» Smeralda ridacchia, si sta lasciando andare.
«Un cannolo salato?» ipotizza Riccardo.
«Sono cannelloni gratinati» sbotta Sauro.
«Si sente il fumo» continuo, «in lontananza, oltre il bosco, c'è una città in fiamme. Varsavia? Urla, grida di disperati che fuggono. Qualcuno ha portato con sé una capra. Tra le rovine della guerra che inevitabilmente tra poco verrà nascerà un albero di pesco che non darà frutti. Che non avrà fiori.»
«Giovanni, ma che diamine vai dicendo?» Sauro sembra scocciato, lo sento armeggiare di nuovo col bicchiere.
«Mi sono lasciato trasportare» dico, «è quello che mi ha suggerito il cibo.»
Campanelli, un piatto sparisce, ne arriva uno nuovo. La pioggia è sempre più forte ed è aumentato anche il vorticare del vento, che ora fa tremare i vetri delle finestre. Il mare muggisce, colpisce gli scogli, il respiro selvaggio.
Il profumo che arriva dal piatto è salino, di pesce azzurro. Sgombro. Il guazzetto è saporito, abbondante, il liquido è denso, concentrato. C'è pomodoro, erba cipollina. Il pesce è sodo, cotto a parte. C'è del croccante, un gusto deciso, marino, salicornia, mentre le minuscole sfere che esplodono in bocca sono uova di salmone. È ottimo, ma il brodo è davvero tanto, il piatto non ha equilibrio.
«È sera» dico, mentre mi alzo silenzioso, senza che gli altri se ne accorgano, «siamo in un palazzo signorile, a Fregene, è l'inizio dell'estate. Fa caldo. Una bambina piange. È stato preparato il bagnetto per lei, ma la tata è stata allontanata con una scusa, sarà la madre a lavarla.»
Una sedia viene rovesciata, passi pesanti.
«Giovanni dove cazzo sei?» urla Sauro. Un piatto cade sul pavimento.
Mi sposto di lato, Sauro inciampa, bestemmia.
«In realtà la madre ha un ospite. I due si intrattengono sul patio, bevono, la bambina continua a piangere. I due ridono, ridono, ridono. Dal mare arriva il fresco della brezza serale, un gabbiano grida. La bambina tace. I due non si preoccupano, vanno in camera da letto e ci restano tutto il tempo che vogliono.»
Smeralda urla, sento un bicchiere frantumarsi non lontano da me, sul muro, cerca di colpirmi.
«La madre si riveste, raggiunge la figlia, non la trova nel lettino, nota che le sbarre sono aperte, una distrazione. "Pandora!" la chiama, "dove sei?". Entra in bagno, la vede. Ne vede la schiena, galleggia nella vasca, i capelli come alghe. I due la tirano fuori, l'asciugano, la sistemano nel lettino. L'uomo è un uomo potente, troverà il modo di corrompere il medico che dovrà stabilire le cause della morte. La disperazione della madre è disperazione autentica. I due mostri si salveranno.»
«Chi ti ha raccontato queste cose?» urla Sauro, «dove sei!»
Seguo il muro, tasto, trovo l'arco, mi infilo nel corridoio.
«Da questa parte» dico. Faccio rumore col bastone battendolo a terra. Sento i passi di Sauro avvicinarsi. Mi inoltro nel corridoio. Sauro urta una maniglia, mi maledice. Dal soggiorno sento un pianto. È Riccardo.
Le campanelle. Sono tante, mi sfilano a fianco. Chi abita la casa ha fame.
Sauro grida, stavolta di dolore. Mi passa davanti, sento la puzza di sudore, il suo rantolare. Corre nel corridoio, sbatte, cade, le campanelle lo inseguono. Continua a correre, i rumori si perdono lungo il budello. Torno in soggiorno.
«Smeralda, vieni con me» dico.
Seguo il suo debole piagnucolare, la raggiungo, le afferro un braccio e la conduco via con me, attraverso l'arco, nel corridoio. Nella pancia della casa. Altrove.
C'è di nuovo calma, ora. Riccardo si è seduto a tavola, respira pesantemente. Aspira il muco dal naso, non parla. Non ho comandato di accendere le luci, la cena non è ancora finita.
La pioggia s'è placata, ticchetta indolente sui vetri. S'è calmato anche il mare.
I campanelli dei domestici, il dolce che viene posato davanti a noi.
«Non preoccuparti» dico, «mi prenderò io tutte le colpe, ora finisci di mangiare. Ci è voluto del tempo per preparare questo piatto, l'ingrediente principale è arrivato da poco.»
In bocca ha una buona consistenza, cremosa, grassa, ogni tanto mordo una noce, c'è dell'uva passita, cannella, cioccolato.
E sangue.