Lui non è tanto alto, ha un inizio di pancetta e di stempiatura tipica della mezza età, ha gli occhi azzurri e profondi.
Lei è bionda, alta, atletica ed ha appena compiuto vent’anni; i suoi occhi marroni hanno la dolcezza dei cerbiatti.
Lui è già vedovo.
Lei è ancora vergine.
Sono in piedi.
Lei sta davanti alla croce che, quattro anni prima, sua mamma ha portato sulla collina in perenne memoria del marito; gli occhi lucidi come ogni giovedì quando sale a piedi fino in cima, muove le labbra in silenzio, forse prega, forse, semplicemente, parla con quel papà di cui è stata la bambina principessa e l’adolescente regina prima che lui la lasciasse troppo presto.
Lui sta qualche passo indietro, sono due mesi che ogni giovedì sale sulla collina, inseguendo un’ossessione.
Tre mesi dall’incontro tra il Siaulai e il Vilnius, ultima partita del campionato di basket prima della sosta di Natale; lei era il pivot della squadra di casa, lui era uno degli Ufficiali di Campo, l’addetto al cronometro.
Era la prima volta che arbitrava il Siaulai, era la prima volta che la vedeva, ma aveva deciso, fin dal momento in cui la sirena aveva decretato la fine delle ostilità, che doveva averla.
Era tornato a casa preda di un’eccitazione che non era in grado di controllare, aveva cenato pensando solo a lei e, al culmine di un desiderio folle, era uscito per prendersi una prostituta.
Nei giorni seguenti, approfittando della pausa del campionato aveva raccolto informazioni consultando almanacchi, annuari, statistiche, il tutto con molta discrezione nonostante il tumulto interno che non gli dava tregua.
C’erano voluti dieci giorni, ma la mattina del primo dell’anno finalmente era riuscito a scoprire dove abitava.
Aveva chiesto e ottenuto una pausa di un mese alla ripresa del campionato e poi aveva chiesto e ottenuto di non arbitrare il Siaulai fino alla fine del torneo: non voleva che lei lo riconoscesse.
Per due mesi l’aveva seguita quasi quotidianamente, non aveva molto altro da fare, non era molto impegnativo.
La vita di lei sembrava circoscritta a casa, università e allenamenti.
Tranne il giovedì.
Ogni giovedì, infatti, subito dopo pranzo, usciva e si incamminava su per la collina fino a quella croce, fino a quel papà che le aveva lasciato una voragine nello stomaco e troppe lacrime nel cuore.
Ora, il primo giovedì di marzo, una fredda e limpidissima giornata di sole di fine inverno, lui si trova solo qualche passo dietro a lei; si è avvicinato in silenzio ma tanto lei non lo avrebbe sentito nemmeno se le fosse corso incontro.
Sono momenti in cui lei sente solo la voce del suo papà, come se le fosse ancora accanto.
Ha scelto questo pomeriggio perché non c’è nessuno oltre a loro due sulla collina, per la prima volta in due mesi.
«Mi perdoni signorina, non ho potuto fare a meno di notarla…»: il dado è tratto.
A lei quest’ometto di mezza età, chissà perché, fa tenerezza, forse in qualche modo le ricorda suo padre, forse l’ha colta in un momento in cui ha solo bisogno di qualcuno con cui parlare, cui raccontare.
Lui si mostra dolce, comprensivo, le offre un caffè una volta scesi dalla collina, poi la saluta e ognuno torna alla propria vita.
Il giovedì successivo lui non sale sulla collina, non ne ha più bisogno.
Lascia passare quindici giorni e poi le è di nuovo accanto, davanti alla croce.
Questa volta trascorrono quasi due ore assieme, lui le racconta della sua vita solitaria da quando un ictus si è preso la moglie lasciandolo in un “mare di dolore”: è l’espressione che usa.
Poi, quasi per caso, le dice che lui fa l’arbitro di basket e a lei si illuminano in modo impercettibile gli occhi; all’improvviso è un fiume in piena, gli racconta che il basket le ha salvato la vita, che quando gioca dimentica tutto e che senza le sue compagne si sentirebbe persa.
Lui ha stabilito il punto di contatto.
Dopo due altri giovedì lei lo invita a cena a casa sua; in un recondito angolo della sua mente un pensiero folle: se a sua mamma piacesse? Se si piacessero? Se…
Lui si presenta elegantissimo, un mazzo di fiori per la madre di lei e una bottiglia di vino italiano per la cena.
È una serata gradevole, che scorre senza intoppi, sembra si conoscano da tempo.
Lui è carino quanto basta con la mamma di lei; lei è sorridente, prova un leggero senso di felicità come non le accade da anni.
Quando sta per uscire lui si produce in un elegante baciamano con la madre e per la prima volta azzarda un casto bacio sulla guancia di lei che lo ricambia.
Si precipita giù per le scale, nei pantaloni un’erezione che gli provoca dolore; in un lampo è a casa, si stende sul divano dove chiude gli occhi e, immaginandola nuda, si masturba.
È una magnifica giornata di fine maggio che straripa di primavera quando lei, finalmente, entra per la prima volta in casa di lui.
La fa sedere sul divano, le offre da bere, niente di alcoolico, è una sportiva.
Si siede sulla poltrona di fronte a lei, chiacchierano come due vecchi amici ma il cuore di lui ha i battiti accelerati; lei se ne va dopo un paio di ore, lui siede dove fino a cinque minuti prima c’era lei, si inebria del suo profumo, sente l’eccitazione salire fino a livelli parossistici, non vuole masturbarsi.
Esce e va a prendersi una prostituta.
Lei torna a casa di lui più volte, il divano del salotto diventa un rifugio sicuro, crede di aver trovato un buon compromesso tra il desiderio di un nuovo papà e l’esigenza di non tradire il ricordo di quello vero.
Lui aspetta il momento di averla finalmente tra le braccia, aspetta per due lunghi mesi che capiti l’occasione giusta, in tutto questo periodo non siede mai sul divano assieme a lei, durante questo periodo almeno una volta ogni due settimane è ospite a casa di lei a cena.
È l’8 agosto quando lui e lei si ritrovano al Black Bar insieme ad altre centinaia di persone a tifare per la Nazionale che sta facendo la storia, in palio la medaglia di bronzo olimpica.
Lui non riesce a seguire la partita, lei è arrivata in compagnia di Fridrikas, lo presenta come un caro amico.
Ma Fridrikas le sta appiccicato, ad ogni canestro esultano assieme, a lui sembra che le tenga la mano, ma c’è poca luce, potrebbe sbagliarsi.
Aveva sognato di invitarla da lui al termine dell’incontro, avrebbero festeggiato insieme, solo loro due.
La partita non è ancora finita ma lui già sa che il suo progetto non andrà in porto.
Arriva la vittoria agognata, arriva la prima medaglia olimpica nella storia del basket nazionale, lei sembra trasformata, non l’ha mai vista così allegra, felice, solare: non è la “sua” lei.
Decidono di andare a festeggiare con gli altri, lei e Fridrikas, invitano anche lui a unirsi al gruppo; lui inventa una scusa, li saluta e si avvia verso casa.
Sale, chiude la porta alle sue spalle, stasera non gli va nemmeno una prostituta; si versa da bere, sorseggia appena il liquore, poi, lanciando un grido disumano, scaglia violentemente il bicchiere contro il muro del salotto, proprio sopra il divano.
Passa la domenica e il lunedì mattina, nel primo pomeriggio è lei che va da lui.
Si siede sul divano e con la freschezza dei suoi vent’anni gli riferisce in ogni particolare i festeggiamenti di sabato sera e poi gli dice che la domenica è salita sulla collina a raccontare al papà della medaglia di bronzo.
Lui capisce solo che in questo momento è bellissima, il desiderio è all’apice, per la prima volta da quando lei è entrata in casa sua si siede accanto a lei sul divano.
Le prende la mano, lei sembra sorpresa ma non la ritrae.
«Tra due giorni parto» gli sta dicendo «faccio una settimana di vacanza con gli amici prima di riprendere gli allenamenti per la nuova stagione».
Lui non la sta più ascoltando, sente che gli sta scivolando via.
«Mi farebbe piacere se ogni tanto passassi a trovare mia mamma, è così sola».
Lui la immagina con Fridirkas, la immagina tra le sue braccia.
No, non era così che doveva andare.
Ora le stringe il braccio, le si avvicina e tenta di baciarla sulla bocca.
Lei è sorpresa, si ritrae istintivamente, tenta di liberare il suo braccio.
«Cosa stai facendo» riesce a dire con un filo di voce.
«Ti voglio, da sempre» risponde lui, è stravolto, mentre le mette una mano sul seno.
«No!» urla lei mentre di scatto si alza dal divano.
«Io ti amo» le dice lui con una voce profonda che le mette paura.
«Non sai cosa stai dicendo. Ora devo andare» prova a ribattere lei mentre capisce che non può rimanere lì un momento di più.
Tenta di avviarsi verso la porta ma lui la prende per il braccio e, mentre le supplica di rimanere, la tira con forza di nuovo sul divano.
«Lasciami!» grida lei ormai preda del terrore.
Si divincola e prova ad alzarsi ma lui le è addosso, nonostante i venti centimetri di meno ha una forza incredibile, tenta di strapparle la maglietta, lei si volta e gli molla un violento ceffone.
In quel momento lui prende il coltello che aveva infilato tra i cuscini del divano e con una furia ormai fuori controllo infierisce sul suo corpo.
Domani e per qualche giorno i media nazionali racconteranno questa storia così simile a troppe altre in ogni angolo del pianeta.
Poi tutto tornerà, come sempre, nell’oblio.