Il viaggio in carrozza da Londra fu piuttosto stancante. Theodor, il nostro cocchiere, aveva spinto i cavalli ad andatura sostenuta e aveva coperto in un tempo invidiabile la distanza da Hanson Court alla banchina del porto. Ci fermammo davanti a una grande nave mercantile ormeggiata al molo: la “Baltic Queen”.
«Le porto la valigia a bordo, signore?»
«No, grazie, faccio da solo. Arrivederci, Theodor.» La carrozza si allontanò.
È sempre disponibile il buon vecchio Theodor. Mio padre, Sebastian, non ritiene che questi veicoli a quattro ruote che fanno impazzire l’America e l’Europa continentale, riusciranno mai a sostituire la rassicurante affidabilità di un tiro di cavalli, ma lui è ormai fuori dal tempo. Così, Theodor può stare tranquillo: non rischia di perdere il posto di lavoro, sostituito da un guidatore di automobili in uniforme.
Mio padre non si è convinto dell’ineluttabilità del progresso nemmeno quando, grazie all’energia elettrica, i nostri telai hanno dimezzato la mano d’opera necessaria, raddoppiando la produzione insieme ai nostri profitti.
Uno dei suoi crucci maggiori è sempre stato quello di non essere mai riuscito a farsi accettare dal Reform Club. Evidentemente le origini modeste avevano costituito un ostacolo all’accoglimento della sua richiesta in un ambiente così esclusivo, ma i recenti successi dell’azienda e le accresciute ricchezze avevano finalmente fatto accogliere, con una generazione di ritardo, la mia richiesta in qualità di socio provvisorio del Club.
«Le porto la valigia a bordo, signore?»
«No, grazie, faccio da solo. Arrivederci, Theodor.» La carrozza si allontanò.
È sempre disponibile il buon vecchio Theodor. Mio padre, Sebastian, non ritiene che questi veicoli a quattro ruote che fanno impazzire l’America e l’Europa continentale, riusciranno mai a sostituire la rassicurante affidabilità di un tiro di cavalli, ma lui è ormai fuori dal tempo. Così, Theodor può stare tranquillo: non rischia di perdere il posto di lavoro, sostituito da un guidatore di automobili in uniforme.
Mio padre non si è convinto dell’ineluttabilità del progresso nemmeno quando, grazie all’energia elettrica, i nostri telai hanno dimezzato la mano d’opera necessaria, raddoppiando la produzione insieme ai nostri profitti.
Uno dei suoi crucci maggiori è sempre stato quello di non essere mai riuscito a farsi accettare dal Reform Club. Evidentemente le origini modeste avevano costituito un ostacolo all’accoglimento della sua richiesta in un ambiente così esclusivo, ma i recenti successi dell’azienda e le accresciute ricchezze avevano finalmente fatto accogliere, con una generazione di ritardo, la mia richiesta in qualità di socio provvisorio del Club.
«Benvenuto, Mr. Hanson – mi aveva detto Sir Harold Hastings, vice-presidente del Club – la sua ammissione come lei sa è del tutto provvisoria. Soltanto fra sei mesi, con la prossima riunione plenaria del Consiglio, sarà presa una decisione definitiva. Utilizzi bene questo periodo, osservando con discrezione e cercando di evitare ogni forma di invadenza.»
Non trovai niente di meglio che annuire, mentre Sir Hastings mi guardava dall’alto in basso, dandomi l’impressione che non aspettasse altro che un passo falso o una parola fuori posto. Poi continuò: «Come lei sa, la discrezione e la riservatezza sono le qualità irrinunciabili del Reform Club di Londra. I soci del Club, me compreso, pagano fior di sterline per la quota annuale e non ammettono trasgressioni alla norma per cui, qualunque cosa accada nel circolo, niente trapeli al di là di queste mura.»
«Capisco benissimo e l’assicuro che è anche mio interesse…» cercai di interloquire, ma Sir Hastings, con voce tonante mi interruppe: «I nostri soci non amano che si parli di loro, delle loro abitudini e neppure, lei mi capisce, dei loro vizi. Ricordiamo ancora con un certo disappunto la pubblicazione, avvenuta una trentina di anni fa, del volume “Il giro del mondo in ottanta giorni” a opera di quel francese, quel certo Jules Verne. Per un lungo periodo si parlò fin troppo del Reform, tirato in ballo arbitrariamente dall’autore, dando al Club una notorietà di cui avremmo fatto volentieri a meno.»
Fu proprio in questa fase di osservazione attenta e di partecipazione discreta che mi trovai coinvolto in una disputa a cui non mi fu possibile, né opportuno, sottrarmi.
La zona ricreativa del Club è costituita da numerosi salotti, ognuno dei quali adibito a una funzione particolare. Alcuni sono riservati al gioco, anche d’azzardo, caratterizzato da puntate molto impegnative che farebbero impallidire il novantanove per cento dei sudditi di Sua Maestà. Altri sono dedicati alla lettura, sia di quotidiani che di preziosi libri in dotazione della libreria del Club. Qui le letture si accompagnano a vivaci discussioni che riguardano una varietà infinita di argomenti: storia, politica, costume, ma anche cronaca quotidiana.
Scelsi casualmente uno dei salotti che si susseguivano numerosi al lato di un lungo corridoio. Lì avvennero il mio battesimo nel Club e l’inizio di questa storia.
Entrai quasi in punta di piedi. La parete di fondo era occupata da una piccola libreria e davanti a questa un tavolo da fumo su cui erano appoggiati i quotidiani più diffusi: il “Times”, il “Daily Telegraph”, il “Morning Post”. Due poltroncine, all'apparenza molto comode, invitavano alla lettura. Il centro era occupato da due tavoli da gioco con quattro sedie ciascuno, momentaneamente vuote. Dalla parte opposta alla libreria un grande camino con un fuoco scoppiettante attorno a cui erano sistemate tre comode poltrone in pelle. Due erano occupate.
«Signori, buonasera. Posso sedere? Mi presento: sono Richard Hanson… ma non vorrei disturbare.»
«Hanson? Della Hanson Weaving? Credo di aver conosciuto suo padre, Sebastian. Varie volte si è servito delle mie navi per trasportare i suoi tessuti. Molto lieto, sono Thomas Attenborough.»
Sapevo bene chi fosse il mio interlocutore: un ricchissimo armatore a capo di una consistente flotta mercantile che raggiunge ogni angolo degli oceani.
«Sono onorato di conoscerla di persona», risposi con il tono più servile che riuscii a esprimere.
«Permetta anche che le presenti il Colonnello William Rutherford che ha partecipato con grandi successi alle campagne coloniali in Asia e in Africa.»
L’uomo che sedeva di fronte a me era in uniforme militare. L’occhio sinistro era coperto da una benda scura, un palese risultato di una ferita di guerra. Sul destro portava un monocolo dietro il quale un occhio ceruleo mi squadrava dall’alto in basso. La mia attenzione fu attratta soprattutto dalla collezione infinita di decorazioni che ornavano il suo petto: nastrini, medaglie e croci al valore militare. Stimai il peso attorno alle due libbre.
«Benvenuto nel Club, giovanotto!» tuonò il Colonnello.
Feci un leggero inchino all’indirizzo del militare prima di sedere sulla poltrona vuota.
Il signor Attenborough, che aveva probabilmente notato il mio interesse per tutte quelle decorazioni, riprese la parola: «È veramente stupefacente il numero di onorificenze del Colonnello Rutherford. Potrei dire che il Colonnello ha più croci sul petto di quelle che si trovano a Kryžių Kalnas.»
Non avevo mai sentito quel nome e il mio sguardo interrogativo non sfuggì all’occhio indagatore del Colonnello.
«Giovanotto, il signor Attenborough si riferisce a una città della Lituania che si chiama Šiauliai nei cui pressi si trova Kryžių Kalnas, una collina che è detta per l’appunto “collina delle croci” in cui sono state piantate decine e decine di croci di vario tipo, foggia e dimensione e che è divenuta per questo un luogo di interesse per i viaggiatori. Mio figlio, in un suo recente viaggio nei paesi baltici, ha visitato il luogo e mi ha riferito che ci sono almeno duecento croci su quella collina. Quindi il paragone con il modesto numero delle mie decorazioni mi pare un po’ esagerato.»
Non mi sfuggì un movimento impercettibile di un sopracciglio di Attenborough. «Mi permetta, Colonnello, il paragone era volutamente scherzoso e paradossale ma, con tutto il rispetto dovuto a suo figlio, a me pare esagerato il numero delle croci che le è stato riferito.»
Il Colonnello si protese in avanti e sgranò l’occhio facendo cadere il monocolo che cominciò a oscillare come un pendolo, appeso a una cordicella fermata a un’asola del bavero della giacca.
Prima che potesse proferire parola il signor Attenborough riprese: «la mia Baltic Queen compie ogni mese il trasferimento da Londra a Klaipeda per scaricare e ricaricare merci. La nave rimane qualche giorno ormeggiata nel porto e, proprio nell’ultimo viaggio, il secondo di bordo, il signor Wilson, mi ha raccontato di aver approfittato della sosta per andare a visitare la collina delle croci di cui aveva sentito parlare. Il signor Wilson è un tipo molto preciso e si prese la briga di contare le croci presenti nel luogo: erano centoventotto!» Le ultime parole furono pronunciate con una certa enfasi.
Mi rendevo conto che l’atmosfera si stava surriscaldando. Il Colonnello aveva assunto un colorito paonazzo e, con la voce rotta per l’irritazione, disse fra i denti, riposizionando il monocolo nella posizione abituale: «Mi meraviglia, signor Attenborough, che lei anteponga la versione di un secondo di bordo – l’espressione del viso mostrò un certo disprezzo – a quella di mio figlio, primo classificato nel suo corso all’Accademia militare di Sandhurst e giovane ufficiale molto promettente.»
«Colonnello, non è mia intenzione mettere in dubbio in alcun modo le doti di suo figlio, ma conosco da anni il signor Wilson e so che se lui dice che le croci sono 128, potranno essere 127 o 129 ma non certo 200. Sarei disposto a scommetterci 500 sterline!»
«Lei mi invita a nozze, signor Attenborough! Troviamo il modo di formalizzare questa scommessa e consideri le sue 500 sterline già nelle mie tasche!»
Non avevo la minima idea di come sarebbe finita questa storia, fino a che l’armatore ebbe la brillante idea: «Fra due giorni la Baltic Queen affronterà di nuovo il viaggio per Klaipeda. Potremmo chiedere al nostro giovane socio signor Hanson di imbarcarsi sulla nave e recarsi sul posto per dirimere definitivamente la questione. Sarà lui, se lo vorrà, l’arbitro imparziale della nostra disputa.»
«Bene! E vincerà la scommessa chi si avvicinerà di più al numero reale», sentenziò il Colonnello.
«Ottima idea, Colonnello! Mi spiace perfino doverle sottrarre 500 sterline!» disse Attenborough con un ghigno sarcastico.
A quel punto dovevo dire la mia. Pensai rapidamente e mi resi conto di essermi, del tutto involontariamente, cacciato in un bel guaio. I due contendenti erano entrambi membri del Consiglio del Club e la mia domanda avrebbe dovuto essere accolta, per statuto, dall’unanimità dei consiglieri. Io avrei fatto il mio dovere di incaricato super partes ma sicuramente il mio responso avrebbe nuociuto a uno dei due contendenti e… chissà come l’avrebbe presa? D’altra parte, sottrarmi a quell’incarico sarebbe stato mal giudicato da parte di entrambi, così… «signori, sono onorato della vostra fiducia e mi impegno a svolgere il compito affidato con correttezza, precisione e imparzialità.»
L’accordo fu suggellato con ottimi sigari indiani e whisky scozzese. Fu stabilito che alla conta avrebbero partecipato un membro dell’equipaggio della Baltic Queen, il nostromo Gregory Bennett, in rappresentanza dell’armatore e l’attendente del Colonnello, il giovane tenente Harrison Mitchell che si sarebbe imbarcato insieme a noi. Le dichiarazioni definitive dei due contendenti erano state: 128 per Attenborough e 200 per Rutherford. Avrebbe vinto la scommessa chi si fosse avvicinato di più al numero reale.
La zona ricreativa del Club è costituita da numerosi salotti, ognuno dei quali adibito a una funzione particolare. Alcuni sono riservati al gioco, anche d’azzardo, caratterizzato da puntate molto impegnative che farebbero impallidire il novantanove per cento dei sudditi di Sua Maestà. Altri sono dedicati alla lettura, sia di quotidiani che di preziosi libri in dotazione della libreria del Club. Qui le letture si accompagnano a vivaci discussioni che riguardano una varietà infinita di argomenti: storia, politica, costume, ma anche cronaca quotidiana.
Scelsi casualmente uno dei salotti che si susseguivano numerosi al lato di un lungo corridoio. Lì avvennero il mio battesimo nel Club e l’inizio di questa storia.
Entrai quasi in punta di piedi. La parete di fondo era occupata da una piccola libreria e davanti a questa un tavolo da fumo su cui erano appoggiati i quotidiani più diffusi: il “Times”, il “Daily Telegraph”, il “Morning Post”. Due poltroncine, all'apparenza molto comode, invitavano alla lettura. Il centro era occupato da due tavoli da gioco con quattro sedie ciascuno, momentaneamente vuote. Dalla parte opposta alla libreria un grande camino con un fuoco scoppiettante attorno a cui erano sistemate tre comode poltrone in pelle. Due erano occupate.
«Signori, buonasera. Posso sedere? Mi presento: sono Richard Hanson… ma non vorrei disturbare.»
«Hanson? Della Hanson Weaving? Credo di aver conosciuto suo padre, Sebastian. Varie volte si è servito delle mie navi per trasportare i suoi tessuti. Molto lieto, sono Thomas Attenborough.»
Sapevo bene chi fosse il mio interlocutore: un ricchissimo armatore a capo di una consistente flotta mercantile che raggiunge ogni angolo degli oceani.
«Sono onorato di conoscerla di persona», risposi con il tono più servile che riuscii a esprimere.
«Permetta anche che le presenti il Colonnello William Rutherford che ha partecipato con grandi successi alle campagne coloniali in Asia e in Africa.»
L’uomo che sedeva di fronte a me era in uniforme militare. L’occhio sinistro era coperto da una benda scura, un palese risultato di una ferita di guerra. Sul destro portava un monocolo dietro il quale un occhio ceruleo mi squadrava dall’alto in basso. La mia attenzione fu attratta soprattutto dalla collezione infinita di decorazioni che ornavano il suo petto: nastrini, medaglie e croci al valore militare. Stimai il peso attorno alle due libbre.
«Benvenuto nel Club, giovanotto!» tuonò il Colonnello.
Feci un leggero inchino all’indirizzo del militare prima di sedere sulla poltrona vuota.
Il signor Attenborough, che aveva probabilmente notato il mio interesse per tutte quelle decorazioni, riprese la parola: «È veramente stupefacente il numero di onorificenze del Colonnello Rutherford. Potrei dire che il Colonnello ha più croci sul petto di quelle che si trovano a Kryžių Kalnas.»
Non avevo mai sentito quel nome e il mio sguardo interrogativo non sfuggì all’occhio indagatore del Colonnello.
«Giovanotto, il signor Attenborough si riferisce a una città della Lituania che si chiama Šiauliai nei cui pressi si trova Kryžių Kalnas, una collina che è detta per l’appunto “collina delle croci” in cui sono state piantate decine e decine di croci di vario tipo, foggia e dimensione e che è divenuta per questo un luogo di interesse per i viaggiatori. Mio figlio, in un suo recente viaggio nei paesi baltici, ha visitato il luogo e mi ha riferito che ci sono almeno duecento croci su quella collina. Quindi il paragone con il modesto numero delle mie decorazioni mi pare un po’ esagerato.»
Non mi sfuggì un movimento impercettibile di un sopracciglio di Attenborough. «Mi permetta, Colonnello, il paragone era volutamente scherzoso e paradossale ma, con tutto il rispetto dovuto a suo figlio, a me pare esagerato il numero delle croci che le è stato riferito.»
Il Colonnello si protese in avanti e sgranò l’occhio facendo cadere il monocolo che cominciò a oscillare come un pendolo, appeso a una cordicella fermata a un’asola del bavero della giacca.
Prima che potesse proferire parola il signor Attenborough riprese: «la mia Baltic Queen compie ogni mese il trasferimento da Londra a Klaipeda per scaricare e ricaricare merci. La nave rimane qualche giorno ormeggiata nel porto e, proprio nell’ultimo viaggio, il secondo di bordo, il signor Wilson, mi ha raccontato di aver approfittato della sosta per andare a visitare la collina delle croci di cui aveva sentito parlare. Il signor Wilson è un tipo molto preciso e si prese la briga di contare le croci presenti nel luogo: erano centoventotto!» Le ultime parole furono pronunciate con una certa enfasi.
Mi rendevo conto che l’atmosfera si stava surriscaldando. Il Colonnello aveva assunto un colorito paonazzo e, con la voce rotta per l’irritazione, disse fra i denti, riposizionando il monocolo nella posizione abituale: «Mi meraviglia, signor Attenborough, che lei anteponga la versione di un secondo di bordo – l’espressione del viso mostrò un certo disprezzo – a quella di mio figlio, primo classificato nel suo corso all’Accademia militare di Sandhurst e giovane ufficiale molto promettente.»
«Colonnello, non è mia intenzione mettere in dubbio in alcun modo le doti di suo figlio, ma conosco da anni il signor Wilson e so che se lui dice che le croci sono 128, potranno essere 127 o 129 ma non certo 200. Sarei disposto a scommetterci 500 sterline!»
«Lei mi invita a nozze, signor Attenborough! Troviamo il modo di formalizzare questa scommessa e consideri le sue 500 sterline già nelle mie tasche!»
Non avevo la minima idea di come sarebbe finita questa storia, fino a che l’armatore ebbe la brillante idea: «Fra due giorni la Baltic Queen affronterà di nuovo il viaggio per Klaipeda. Potremmo chiedere al nostro giovane socio signor Hanson di imbarcarsi sulla nave e recarsi sul posto per dirimere definitivamente la questione. Sarà lui, se lo vorrà, l’arbitro imparziale della nostra disputa.»
«Bene! E vincerà la scommessa chi si avvicinerà di più al numero reale», sentenziò il Colonnello.
«Ottima idea, Colonnello! Mi spiace perfino doverle sottrarre 500 sterline!» disse Attenborough con un ghigno sarcastico.
A quel punto dovevo dire la mia. Pensai rapidamente e mi resi conto di essermi, del tutto involontariamente, cacciato in un bel guaio. I due contendenti erano entrambi membri del Consiglio del Club e la mia domanda avrebbe dovuto essere accolta, per statuto, dall’unanimità dei consiglieri. Io avrei fatto il mio dovere di incaricato super partes ma sicuramente il mio responso avrebbe nuociuto a uno dei due contendenti e… chissà come l’avrebbe presa? D’altra parte, sottrarmi a quell’incarico sarebbe stato mal giudicato da parte di entrambi, così… «signori, sono onorato della vostra fiducia e mi impegno a svolgere il compito affidato con correttezza, precisione e imparzialità.»
L’accordo fu suggellato con ottimi sigari indiani e whisky scozzese. Fu stabilito che alla conta avrebbero partecipato un membro dell’equipaggio della Baltic Queen, il nostromo Gregory Bennett, in rappresentanza dell’armatore e l’attendente del Colonnello, il giovane tenente Harrison Mitchell che si sarebbe imbarcato insieme a noi. Le dichiarazioni definitive dei due contendenti erano state: 128 per Attenborough e 200 per Rutherford. Avrebbe vinto la scommessa chi si fosse avvicinato di più al numero reale.
Due giorni dopo io e gli altri due compagni di viaggio, ci trovavamo a bordo del mercantile che disponeva anche di tre cabine passeggeri oltre a quella riservata al comandante. Il viaggio sarebbe durato circa una dozzina di giorni, considerate le soste intermedie per operazioni di carico e scarico. Il tempo – era già autunno inoltrato – non era dei migliori ma navigando prevalentemente lungo costa ebbi modo di godere di panorami nuovi e affascinanti. Per i momenti di noia mi ero portato da leggere un volume preso in prestito al Club, una raccolta di racconti, di autore anonimo, intitolata “Racconti diversi”.
Circa sei mesi dopo…
Finalmente è arrivato il responso del Consiglio: sono socio effettivo del Reform Club! Mio padre sarà orgoglioso di me, tanto più che sono attualmente il socio più giovane. I primi a congratularsi sono stati proprio Mr. Attenborough e il Colonnello Rutherford.
La missione era stata piuttosto complicata. Affrontammo in carrozza il tragitto da Klaipeda a Šiauliai nell’intento di concludere la missione nei tre giorni di sosta della nave in porto.
Pernottammo in città e la mattina dopo, di buon’ora, ci dirigemmo verso la collina delle croci. Un minuscolo sentiero, formatosi dal passaggio continuo di visitatori e pellegrini, divideva approssimativamente in due parti la collina. La vista era suggestiva: croci di foggia e dimensione diversa erano piantate in modo del tutto casuale nel terreno. Decidemmo di iniziare la conta dalla parte sinistra; la mancanza di ordine ci sottoponeva al rischio di saltarne alcune o di contarle doppie, perciò decidemmo di ripetere due volte l’operazione.
Nella prima sezione le croci risultarono 92. Presi nota a matita su un taccuino del risultato.
Arrivati in alto iniziammo a contare la sezione destra della collina per poi scendere di nuovo verso il basso. A colpo d’occhio le croci sembravano meno numerose da quella parte. A metà della discesa ne avevamo già contate 50. Detti un’occhiata veloce alle croci non ancora contate, le contai mentalmente: erano 21. Mi resi conto che il totale faceva 163! Ciò voleva dire che il Colonnello con le sue 200 aveva ecceduto di 37 mentre Mr. Attenborough aveva stimato per difetto di 35 unità. Un vero peccato! Sarebbe bastata una croce in più per un risultato di perfetta parità che mi avrebbe tolto da ogni impiccio e che probabilmente non sarebbe dispiaciuto a nessuno dei due contendenti. Stando così le cose invece la vittoria e le 500 sterline sarebbero andate all’armatore.
Mentre riflettevo su queste curiose circostanze intravidi alla base della collina, sul lato sinistro, un uomo molto vecchio che con passo lento e strascicato portava, stringendola al petto, una croce metallica di modeste dimensioni ma che per lui doveva costituire un fardello assai gravoso. Era un’immagine quasi mistica che mi ricordava la salita al Calvario. Non ne feci parola con i miei due compagni di viaggio e mi misi seduto su un sasso aspettando che essi concludessero la conta e procedessero alla seconda di verifica. Anzi, con qualche chiacchiera in più, cercai di rallentare la loro opera, costringendoli per due volte a ricominciare il loro lavoro.
Un occhio era sempre rivolto all’altra parte della collina. L’uomo, probabilmente esausto, si era fermato alle pendici e con gesti lenti e con fatica aveva piantato la sua croce. Dopo un minuto di raccoglimento e forse di preghiera, aveva ripreso il sentiero da cui era arrivato.
Il secondo controllo aveva confermato il numero delle croci sulla parte destra che avevo subito annotato sul mio taccuino. A quel punto mi alzai in piedi dando uno sguardo panoramico a tutta la collina.
Poi, rivolto a Mitchell e Bennet esclamai: «Perbacco, forse non abbiamo considerato quella piccola croce che si trova là sulla sinistra, un po’ defilata rispetto alle altre!»
I due si guardarono con aria interrogativa, poi guardarono di nuovo la croce. Il tenente fu il primo a parlare: «In effetti… non ricordo di averla messa nel conto…» Aveva compreso al volo l’importanza di quella croce per il suo Colonnello.
Il nostromo si limitò a balbettare: «Veramente… mi sembra impossibile che non sia stata notata da nessuno di noi… penso che sia stata compresa nel conto.»
«Eh no, signori! La cosa è troppo importante. Dobbiamo subito procedere a un riconteggio della zona sinistra!»
Il viaggio di ritorno fu molto più piacevole: mare calmo, ampi sprazzi di sole e buone letture.
Finalmente è arrivato il responso del Consiglio: sono socio effettivo del Reform Club! Mio padre sarà orgoglioso di me, tanto più che sono attualmente il socio più giovane. I primi a congratularsi sono stati proprio Mr. Attenborough e il Colonnello Rutherford.
La missione era stata piuttosto complicata. Affrontammo in carrozza il tragitto da Klaipeda a Šiauliai nell’intento di concludere la missione nei tre giorni di sosta della nave in porto.
Pernottammo in città e la mattina dopo, di buon’ora, ci dirigemmo verso la collina delle croci. Un minuscolo sentiero, formatosi dal passaggio continuo di visitatori e pellegrini, divideva approssimativamente in due parti la collina. La vista era suggestiva: croci di foggia e dimensione diversa erano piantate in modo del tutto casuale nel terreno. Decidemmo di iniziare la conta dalla parte sinistra; la mancanza di ordine ci sottoponeva al rischio di saltarne alcune o di contarle doppie, perciò decidemmo di ripetere due volte l’operazione.
Nella prima sezione le croci risultarono 92. Presi nota a matita su un taccuino del risultato.
Arrivati in alto iniziammo a contare la sezione destra della collina per poi scendere di nuovo verso il basso. A colpo d’occhio le croci sembravano meno numerose da quella parte. A metà della discesa ne avevamo già contate 50. Detti un’occhiata veloce alle croci non ancora contate, le contai mentalmente: erano 21. Mi resi conto che il totale faceva 163! Ciò voleva dire che il Colonnello con le sue 200 aveva ecceduto di 37 mentre Mr. Attenborough aveva stimato per difetto di 35 unità. Un vero peccato! Sarebbe bastata una croce in più per un risultato di perfetta parità che mi avrebbe tolto da ogni impiccio e che probabilmente non sarebbe dispiaciuto a nessuno dei due contendenti. Stando così le cose invece la vittoria e le 500 sterline sarebbero andate all’armatore.
Mentre riflettevo su queste curiose circostanze intravidi alla base della collina, sul lato sinistro, un uomo molto vecchio che con passo lento e strascicato portava, stringendola al petto, una croce metallica di modeste dimensioni ma che per lui doveva costituire un fardello assai gravoso. Era un’immagine quasi mistica che mi ricordava la salita al Calvario. Non ne feci parola con i miei due compagni di viaggio e mi misi seduto su un sasso aspettando che essi concludessero la conta e procedessero alla seconda di verifica. Anzi, con qualche chiacchiera in più, cercai di rallentare la loro opera, costringendoli per due volte a ricominciare il loro lavoro.
Un occhio era sempre rivolto all’altra parte della collina. L’uomo, probabilmente esausto, si era fermato alle pendici e con gesti lenti e con fatica aveva piantato la sua croce. Dopo un minuto di raccoglimento e forse di preghiera, aveva ripreso il sentiero da cui era arrivato.
Il secondo controllo aveva confermato il numero delle croci sulla parte destra che avevo subito annotato sul mio taccuino. A quel punto mi alzai in piedi dando uno sguardo panoramico a tutta la collina.
Poi, rivolto a Mitchell e Bennet esclamai: «Perbacco, forse non abbiamo considerato quella piccola croce che si trova là sulla sinistra, un po’ defilata rispetto alle altre!»
I due si guardarono con aria interrogativa, poi guardarono di nuovo la croce. Il tenente fu il primo a parlare: «In effetti… non ricordo di averla messa nel conto…» Aveva compreso al volo l’importanza di quella croce per il suo Colonnello.
Il nostromo si limitò a balbettare: «Veramente… mi sembra impossibile che non sia stata notata da nessuno di noi… penso che sia stata compresa nel conto.»
«Eh no, signori! La cosa è troppo importante. Dobbiamo subito procedere a un riconteggio della zona sinistra!»
Il viaggio di ritorno fu molto più piacevole: mare calmo, ampi sprazzi di sole e buone letture.