Arrivò sullo spiazzo deserto di fronte alla collina che albeggiava appena. Darija, sfinita per la lunga marcia notturna, si portò una mano al petto, quasi volesse aiutare il respiro affannato e il cuore in tumulto a riprendere il loro ritmo regolare.
Abbassò lo sguardo.
Uno strato di polvere le copriva i piedi e i suoi amatissimi sandali argentati, ormai da almeno un chilometro privi di tacchi. L’elegante abito azzurro le pendeva addosso, floscio come un vecchio sacco. E la sua inseparabile borsa stava diventando un peso sempre più grave da sostenere.
Guardò per un attimo dietro di sé e poi, labbra strette e occhi ridotti a due fessure, tornò a fissare il mare infinito di croci che ricopriva la collinetta, un intrico fitto e irregolare, più caotico di qualunque bosco avesse mai visto; un dardeggiare di ombre che si allungavano una sull’altra, seguendo il capriccio delle nuvole e della luce nascente.
Migliaia e migliaia di crocifissi, di ogni foggia, colore e dimensione, piantati o adagiati su quella piccola gobba di terra, attraversata da un unico sentiero a gradini, ormai quasi sommerso anch’esso. E, confusa fra quelle migliaia, c’era anche la sua croce, lasciata là alcuni mesi prima, una piccola croce beffarda che ora, Darija, doveva ritrovare.
Facendo leva sul residuo di energia nervosa che ancora la sosteneva, strinse i pugni e riprese a camminare, iniziando a salire i gradini. Procedeva lenta, scrutava, aiutandosi con la luce del cellulare nelle zone più scure, finché raggiunse le tre tozze croci gemelle sulle quali l’originario verde brillante stava ormai soccombendo all’assedio della ruggine. Il suo punto di riferimento, l’indicazione impressa nella memoria per rintracciare il crocifisso di legno, privo di effigie, che già era appartenuto alla nonna e che Darija aveva deciso di piantare su quel terreno sacro a suggello di una preghiera, di una speranza d’amore che, nonostante tutto, non avrebbe voluto lasciar morire.
C’era ancora.
Lo intravide, seminascosto da altri che nel frattempo si erano aggiunti alla moltitudine.
Prese aria, come avesse dovuto immergersi, e si mise in ginocchio. Allungò la mano fra steli di legno, plastica, metallo, e lo tirò a sé, strappandolo al debole abbraccio della terra.
Il legno scuro, già vecchio, aveva sopportato mesi di intemperie e appariva scheggiato, ruvido al tatto. Lo strinse fra le dita e non poté impedire che due lente lacrime di fiele le uscissero dagli occhi, insieme alle ultime stille di energia. Si sedette su una stretta panca lì accanto, lasciando che la sensazione di freddo umido, residuo della notte, attraversasse la stoffa leggera e si propagasse per il corpo mischiandosi ai singhiozzi.
Inutile.
Uno stupido, inutile pezzo di legno a sigillo di un’altrettanto stupida e inutile preghiera, di una speranza mai sbocciata davvero. E stupida lei, ad averci creduto.
Eppure, la serata era iniziata nel migliore dei modi. E, per qualche ora almeno, le era sembrata quella giusta.
Suo marito, Gytis, aveva arbitrato il match pomeridiano di Lyga A ed era rientrato a casa in tempo per realizzare il programma già deciso in settimana: visione di un film in centro e cenetta a tarda sera al loro ristorante.
Gytis sembrava sereno, quasi felice si potrebbe dire. Già pronto per uscire, impeccabile nel suo completo blu dal taglio che gli accentuava il fisico atletico, camminava avanti e indietro in salotto. Parlava e gesticolava e, nell’enfasi, sembrava alzarsi da terra, sfiorare il soffitto col suo cranio rasato, sulle ali degli elogi ricevuti dal selezionatore nazionale in persona, per “l’autorevolezza e l’assoluta imparzialità dimostrate” nella direzione di gara: “specchio evidente – le aveva riferito – della grande integrità morale e personale di uno dei migliori arbitri del campionato”.
– Che bello, caro – gli aveva risposto Darija dalla camera, ancora intenta a truccarsi, – forse è la volta buona per un salto di livello.
– Già, sarebbe l’ora! Ma… sei ancora a truccarti? Dai, sbrigati. Sai che non mi va di entrare a film iniziato.
E aveva sottolineato la frase con un veloce picchiettio del dito sul vetro dell’orologio.
Darija, di fronte allo specchio, si soffermò ancora un attimo sulla propria immagine riflessa. Si trovò vecchia, sciupata. Si sentiva addosso il doppio dei suoi quarant’anni. I suoi capelli biondi apparivano spenti, stopposi e neppure gli splendidi orecchini Swarovski che occhieggiavano dal portagioie sarebbero riusciti a ridar loro la luminosità di una volta. Gli occhi erano infossati, circondati da un sottile reticolo di rughe che sembravano accentuarsi di giorno in giorno, di pari passo con quelle agli angoli della bocca.
Sbatté le palpebre e prese un gran respiro: c’era da fare un mezzo miracolo e, come sempre, lo avrebbe fatto. Spazzola e lacca, eyeliner e, soprattutto, fondotinta: doveva essere abbondante, questa sera, per nascondere bene anche lo strano colore bluastro dello zigomo: il solito spigolo stava diventando ogni volta più duro.
Anche la scelta dell’abito aveva richiesto del tempo. Poi si era decisa per quello azzurro – maniche lunghe, ben accollato –, uno dei suoi preferiti, così discreto e coprente. E finalmente, accolta dal sorriso tirato di Gytis, era uscita di camera sorridente e brillante come la star di una serie TV.
Videro un bel film, una commedia drammatica che in alcune scene l’aveva spinta quasi alle lacrime; e pure la cena al ristorante era andata bene: ottimo cibo, buon vino e un Gytis insolitamente ciarliero e a tratti spiritoso. Un’atmosfera tranquilla, rilassata, che era proseguita durante il tragitto in auto verso casa. Anche se piccole nuvole scure parevano via via addensarsi nel profondo degli occhi di lui.
Parcheggiò lungo il vialetto e scese dall’auto. Pochi passi veloci e fu dall’altro lato per aprirle la portiera. Ma, nonostante la galanteria, Darija percepì una punta di gelo, un sottile cambiamento, che divenne palpabile una volta messo piede in casa.
Niente era cambiato, né sarebbe mai potuto cambiare: preghiere inascoltate, speranze mal riposte.
Accese le luci, posò la borsa sul divanetto dell’ingresso e si diresse verso il salotto che si apriva al termine del breve corridoio.
– Ti va di bere qualcosa, Gy? – chiese, senza voltarsi e sforzandosi di contenere il tremito che già le spezzava la voce.
Nessuna risposta.
Solo passi frettolosi attutiti dal tappeto e il colpo traditore di un pugno a martello che le piombò in mezzo alle scapole, togliendole il fiato. Le gambe cedettero e cadde in ginocchio, mentre una singola, orrenda parola le feriva le orecchie:
– Troia!
E la colpì ancora, con un calcio di piatto nella schiena.
Darija si ritrovò, come tante, troppe, altre volte, sdraiata a pancia in giù nel loro confortevole salotto, a respirare la polvere dello shiraz, dolorante, incapace di muoversi e ben consapevole di cosa sarebbe successo dopo. Tutto secondo copione.
Il tintinnare di una fibbia.
Il frusciare dei pantaloni calati.
Il freddo improvviso alle gambe e lo strappo doloroso dello slip.
Il suo alito sul collo e fra i capelli e il pene farsi strada a forza dentro di lei.
Ma, mentre Gytis si muoveva, ansimando e farneticando dei suoi mille amanti immaginari, l’ultimo dei quali era il cameriere del ristorante, Darija sentì qualcosa accendersi nella testa. Una frase del film appena visto l’aveva colpita, per perdersi subito nel susseguirsi degli eventi sullo schermo. Ora però era tornata e le risuonava chiara nella mente come un’eco nell’aria nitida fra le montagne.
“La vera follia è fare finta di essere felici, fare finta che il modo in cui ti vanno le cose sia il modo in cui devono andare per il resto della tua vita”.
Fare finta di essere felici…
Per il resto della tua vita…
Spalancò gli occhi su ciò che la circondava: il divano chiaro in pelle quasi intonso, il tavolo da fumo col ripiano di cristallo, le vetrinette piene di bicchieri e suppellettili per lo più inutili, i vasi, le piante, l’arco sottile della lampada sospesa sulla poltrona da lettura, l’enorme schermo del televisore che, come un buco nero, risucchiava ogni oggetto della stanza in pallidi riflessi evanescenti. Tutto era così distante, incomprensibile, estraneo. Solo i piccoli disegni del tappeto, lì, a pochi centimetri dal volto, le apparivano familiari, ben distinti, come un percorso tracciato dal navigatore.
C’era una sola cosa da fare e, in qualche modo, l’avrebbe fatta.
Intanto, doveva riuscire a raggiungere lo studio.
Anziché opporre resistenza, cominciò ad assecondare il movimento di Gytis aprendo piano piano le gambe e inarcando la schiena.
Lui si accorse del cambiamento.
– Lo sapevo! – le sibilò nell’orecchio, aumentando il ritmo. – Lo sapevo che ti piaceva. Puttana!
Darija strinse i denti per contenere il disgusto che le saliva su e si fece sempre più arrendevole, finché non lo sentì gemere e allentare la presa sulle sue spalle.
Colse l’attimo.
Approfittando del rilassamento seguito all’orgasmo e dell’impedimento dei pantaloni alle caviglie, sgusciò via e si precipitò nello studio, chiudendosi la porta alle spalle.
– Apri subito questa cazzo di porta, Darija! Subito! Lo sai, vero, cosa ti succede se mi arrabbio? – gridava, accanendosi sulla maniglia e sferrando colpi sul legno.
Ci aveva messo neanche un minuto a riprendersi dalla sorpresa per quella fuga inaspettata, ma era stato un tempo sufficiente perché Darija potesse prepararsi. Si allontanò con calma dalla scrivania di Gytis e gli rispose.
– Va bene, – disse. – Ora apro.
Fece scattare la chiave e indietreggiò di due passi.
Gytis spalancò la porta come una furia.
– Adesso ti…
Ma si immobilizzò e le parole gli si dissolsero in gola, quando si trovò davanti agli occhi il braccio teso di Darija con in mano il suo revolver.
Occhi e bocca spalancati, cominciò ad arretrare, ma, di nuovo ostacolato dal groviglio dei pantaloni, cadde all’indietro e si ritrovò seduto sull’orlo del divano.
Sorpresa e incredulità durarono un attimo. Saper fronteggiare anche le situazioni più critiche di una partita rientrava nelle sue prerogative, faceva parte delle qualità per le quali era stato ampiamente elogiato giusto poche ore prima. Si rimise in piedi e tese la mano aperta verso Darija, che, rientrata in salotto, ancora lo teneva sotto tiro. Assumendo un’espressione distaccata e risoluta la apostrofò:
– Va bene, ora basta giocare. Metti giù la pistola e saprò essere indulgente…
Non si era però reso conto che non si trattava di una stupida partita di calcio. Che non gli sarebbe bastato soffiare nel suo fischietto o estrarre un cartellino colorato. Che stavolta la posta in gioco era ben altra.
Darija non abbassò l’arma di fronte a tanta falsa sicurezza, né tornò sulle sue decisioni.
Fare finta di essere felici…
Preghiere inascoltate.
Per il resto della tua vita…
Speranze mal riposte.
Serrò con forza la mascella e il dito sul grilletto.
– Non ho…
Bang.
– Nessun…
Bang.
– Amante!
Bang.
Dolore al polso per lo sforzo e i contraccolpi; orecchie trapassate da un sibilo acuto e devastante; occhi annebbiati dal fumo; naso arricciato per l’odore acre della polvere da sparo bruciata. E in bocca il gusto di sensazioni lontane – Rabbia? Conforto? Libertà? – ancora troppo difficili da definire.
Mentre, a poco a poco, i sensi tornavano alla normalità, Darija rimase in piedi di fronte al divano, sul quale si stava allargando una densa macchia rossa. Le braccia allungate sui fianchi e il peso del revolver nella mano, fissò nella mente l’immagine di Gytis: occhi sbarrati, bocca spalancata e quel fisico perfetto che ora sembrava essersi sgonfiato, come un pallone difettoso.
Un’idea la fulminò, provocandole una smorfia delle labbra che poteva quasi somigliare a un sorriso: chissà se il famoso selezionatore nazionale avrebbe ancora definito Gytis uno “specchio di integrità”, vedendolo lì con i calzoni calati e il pene flaccido che faceva capolino dall’elastico dalle mutande…
Con quel pensiero in testa uscì dal salotto. Riprese la borsa dal divanetto nell’ingresso e ci infilò dentro la pistola. Aprì la porta, spense le luci e si allontanò da casa camminando svelta nella notte, con i piccoli tacchi dei sandali che ticchettavano sul marciapiede come biglie cadute da un sacchetto strappato.
Le prime luci del giorno la salutarono ancora seduta sulla stessa fredda panca, in mezzo a una sempre più assurda foresta di crocifissi, a fissare l’orizzonte. Stringeva fra le dita la sua croce, mentre un pesante senso di vuoto si allargava dentro di lei, a creare una pozza scura dove ogni pensiero pareva annegare ancor prima di nascere.
Sollievo.
Incertezza.
Paura.
Tutto si confondeva in un miscuglio indefinito di lacrime, brividi e sensazioni, fra le quali si stemperava, fino quasi a scomparire, la fugace suggestione di libertà appena riconquistata.
Appoggiò accanto a sé il crocifisso e si mise a frugare nella borsa, finché riuscì a trovare il pacchetto di sigarette e l’accendino, rimasti là, inutilizzati, fin dal giorno stesso del suo primo pellegrinaggio alla collina. Un’altra rinuncia, quasi un voto, a sostegno della sua croce conficcata nel terreno, della sua preghiera, della sua speranza.
Se ne accese una. Aspirava e soffiava via il fumo in boccate lente, distanziate, assaporandone il gusto ormai quasi dimenticato, e confidando che l’aroma deciso del tabacco avrebbe finalmente rimpiazzato il vago ma persistente sentore di inutilità che da troppo tempo l’accompagnava. Non certo da compagno discreto, ma da arrogante padrone.
Finì la sigaretta e la scagliò lontano da sé con uno scatto delle dita.
Immediatamente se ne accese un’altra.
Si portò la fiammella dell’accendino di fronte agli occhi, quasi volesse rischiarare l’acqua nera nella quale si sentiva affondare, zavorrata da pensieri e sensazioni contrastanti.
E, come attratta dalla fiamma, un’idea salì prepotente in superficie. Anzi, più che un’idea, una parola, una parola che, si rese conto, fino a quel momento lei aveva completamente trascurato e che cercava ora il suo giusto rilievo sulla scena. Una parola, espressione di un concetto ben preciso, di un sentimento che subito sarebbe dovuto uscire allo scoperto, dopo ciò che aveva fatto: rimorso.
Rimorso.
Possibile che non fosse minimamente affiorato alla sua coscienza?
Scrutò dentro di sé, rivivendo minuto per minuto la serata e il suo epilogo, ma… niente, non riusciva a coglierne il minimo barlume. Scavando a fondo, l’unica parola che aveva trovato, e che avesse una lontana affinità con quella che aveva così facilmente rimosso, era stata rimpianto.
Rimpianto, di non essersi mai ribellata.
Rimpianto, di aver affidato ad altro, a voti, a preghiere, ciò che solo le sue mani potevano fare.
Rimpianto, di non aver agito prima.
Ma soprattutto rimpianto di essere cambiata così tanto. Di essere diventata, a forza di subire, così arida, cattiva, da non riuscire più a provare una briciola di rimorso dopo aver tolto la vita a una persona.
Una consapevolezza che la sconvolse, che la colpì duro, come uno dei pugni di Gytis, e altrettanto dolorosa da conviverci.
Anche la seconda sigaretta era finita e un suono distante di sirene distrasse Darija dai suoi pensieri. L’avevano già rintracciata? Gettò via il mozzicone e subito ne fece condividere il destino alla croce, che andò a schiantarsi in fondo al sentiero.
Rimise in borsa sigarette e accendino e con calma tirò fuori la pistola.