Ciao e grazie a tutti i lettori del mio racconto. Un lavoro che, come consueto da quando frequento questo bel posto, divide. Nel tempo, ho partecipato a cinque dei sette step e a Natale Bifronte, ho realizzato che la mia collocazione nei gradimenti di classifica è medio. Da alcuni lettori sarò premiato e da altri non scelto. Stavolta “Come ti chiami?” è arrivato decimo, ma anche nei concorsi precedenti quella è sempre stata, all’incirca, la collocazione in classifica. Non lo ritengo un pessimo risultato, anzi. E nemmeno sto a pormi tante domande, perché me le ponevo già prima di entrare in questo bel consesso e già mi sono dato una risposta: non so scrivere per tutti. Forse non so scrivere. Scrivere non vuol dire solamente cercare la bella forma, ricercare l’eleganza e la genialità, affrontare argomenti adulti, provocare anche con concetti “forti”. Scrivere vuol dire “giungere”, farsi leggere volentieri. Mi chiedo quanti di noi avrebbero letto volentieri questo racconto, se non obbligati dal contest. Probabilmente in pochissimi. Quindi, me ne faccio una ragione, non so “giungere”. Preciso: quando ho voluto sono giunto, nel mio piccolo, anche con la scrittura, e i riconoscimenti ricevuti mi hanno gratificato. Ma non mi sono “divertito” a scriverli. Qui con voi, essendo fondamentalmente pigro e pertanto non conoscendo altro modo di impegnarmi dovendo seguire dei paletti, ho scelto di divertirmi proponendomi così come natura mi ha partorito e mi vuole.
Come ho anticipato sopra, nel mio divertimento a scrivere ci sta la ricerca della forma (che spesso risulta ai più arcaica), l’eleganza e la poesia, assieme a una storia che ai miei occhi possa risultare importante. Ma mai mi sognerei di non rispettare l’utente “medio”. Cosa significa “lettore medio”? Chi ascolta musica classica è un ascoltatore “elevato”? Chi ascolta il jazz se la tira da fighetto? Chi ascolta la canzone melodrammatica napoletana è un “popolano”? Ascoltando la musica pop sei nella medi (o) criticità? Non credo che tutto ciò abbia a che fare con utenti medi, meno medi o elevati. Credo che sia una questione di gusti insindacabili. I libri che amo sono lavori complessi, ne cito alcuni: “Dialoghi con Leucò” di Pavese, “I Fiori Blu” di Quenau, “Che tu sia per me il coltello” di Grossmann, “Le Confessioni” di Rousseau, “Il Nuovo Mondo” di Huxley. Quando scrivo cerco di rifarmi a questi esempi illustri, provo a scimmiottarli, così mi diverto e mi analizzo.
Ma passiamo al racconto vero e proprio, cercando di ricordare alcuni commenti ricevuti. Innanzitutto, ci tengo a dirlo, ero convinto (a torto, e ciò dimostra che non so scrivere) che il mio racconto fosse assolutamente “leggibile”, chiaro. Non volevo “allontanare” nessuno. Questo racconto nasce dalla mia congenita pigrizia e dalla voglia di partecipare al nostro contest. Volendo partecipare a un concorso basato sulla maschera, in un altro contest letterario, e volendo partecipare anche qui, ho scelto di fare un tutt’uno perché, appunto, sono pigro e non avevo voglia di scrivere due racconti. Certamente, è un racconto di rimandi. L’iniziale porzione di autobiografia di Giocasta è una citazione del geniale film “Cloud Atlas”, che pressappoco comincia in quel modo. Ciò per non scoraggiare i “rimandi” che avevo in mente per il racconto. Rimandi, peraltro, già usati da tantissimi autori. Mi vengono in mente i best sellers di Tom Clancy, dove vengono raccontati fatti che inizialmente appaiono completamente scollegati tra loro e che, nel proseguo delle storie, assumono una precisa collocazione. L’unico paletto dove credo di aver compiuto “frode” nei confronti del meraviglioso team che ci segue è stato quello temporale. Lo statuta (nel 1600 gli statuti si chiamavano così) che cito è tratto dagli statuta del Comune di Bagolino, del 1614. Averla riportata su un testo di un fantomatico Comune di Giuvenasca scritto nel 1600 (preciso) è stata un’invenzione. Sono statuta, quelli di Bagolino, sui quali ho svolto la mia tesi di laurea in età “attempata”. Proprio quella norma civica non l’avevo presa in considerazione nella tesi, mi ero concentrato (vista la mia attività professionale) sulle norme civiche che avevano riflessi penali in un’altra giurisdizione della Serenissima: omicidi, furti, stupri, il clero non sempre esemplare, il concetto di donna rispettata unicamente come veicolo di dote, tradimento e spionaggio a favore di intelligenze straniere. Nella mente, ciò che mi premeva far emergere era la relatività delle leggi. Una polizia interspaziale che si ritrova a far rispettare miliardi di leggi create da “settemiladuecento schiatte cosmiche”. Nel mio caso, una norma tutto sommato irrisoria (ma a quel tempo aveva un senso) provocherà una reazione fortissima nei confronti di una bambina di quattro anni e le condizionerà tutta la sua esistenza. La stessa polizia intercosmica si pone dei dubbi, quando proprio all’inizio l’infermiere dice che “può essere che questo ufficio abbia commesso un errore”. Ma in ciò sta anche una mia biografia di pensiero. Nello svolgere il mio lavoro mi sono sempre chiesto quanto sia giusta la cosiddetta Legge. Impossibile farne a meno, le norme occorrono. E’ sempre stata la forma “punizione” che mi ha creato dubbi. Martin Lutero diceva che nasciamo predestinati, che non ci è concesso di vivere nello stesso modo. Il ladro nasce “ladro” per indole. L’assassino nasce così per indole collerica. Ecco, questi miei dubbi ho provato a metterli in un racconto. L’indole di una bambina è di giocare, e certamente c’erano dei genitori che le hanno spiegato che non si gioca in un luogo di culto. Ma i bambini sono avvezzi alle marachelle. Sono “predestinati” a seguire il loro istinto. La maschera, unica vestigia dei suoi natali, andrà a “coprire” tutti i sensi di colpa che nasceranno nella Giocasta del racconto. E’ il suo rifugio, e quando per la prima volta la toglierà, quando per la prima volta si “denuderà”, compirà il suo “errore” più drammatico. E anche qui c’è molto della mia parziale biografia. Per anni ho indossato la maschera che il mio ruolo imponeva, nascondendo chi sono veramente, e una volta andato in pensione ho provato a staccarmene. Non ero preparato. Svestendomi ho commesso molti errori di “entusiasmo”, di “sincerità”, di “rapporti”. Ancora adesso, quando mi smaschero faccio delle gaffe o creo dolore, perdo anche degli amici. No…non ammazzo nessuno quando mi svesto, non rubo e non vado in chiesa a giocare, vorrei tranquillizzarvi, penso di essere una buona e sgraziata persona. Tutto qui.
Per quanto concerne le citazioni, parto dalla più riportata nei commenti che mi è stata attribuita: Il ristorante al termine del mondo di Douglas Adam. Non ho mai letto quel romanzo, nemmeno conoscevo l’esistenza di questo scrittore. Ma evidentemente l’autore del fumetto “John Doe” l’aveva letto e l’ha inserito nella sua stupenda raccolta di comics. La citazione l’ho presa da quel fumetto. Ci sono altre due citazioni, questa volta musicali, all’interno del lavoro: l’occhio azzurro e l’occhio blu vengono dalla incredibile canzone di Vecchioni “L’ultimo spettacolo”, il piccolo terremoto a est del cuore viene da un monologo di Giorgio Gaber di cui non ricordo il titolo. L’infermiere Rigelliano, lo giuro, non ricordavo che provenisse da Star Trek (che adoro), semplicemente cercavo un nome a una razza aliena e mi è arrivato quello. E l’influenza di Asimov, quella sì, pervade il racconto. Adoro Asimov e soprattutto la quadrilogia della Fondazione e quella che a torto viene considerata una sua opera minore, ma non la cito perché certamente la userò per uno dei mie prossimi lavori e rischierei di giocarmi l’anonimità richiesta.
Chiedo scusa se non sono riuscito a giungere a tutti. Soprattutto chiedo scusa se nell’affrontare i racconti degli altri autori sono stato frettoloso o offensivo. Rimetterò la maschera e tutto tornerà a posto.
Aggiungo che alcuni autori / commentatori hanno esaminato il mio racconto così approfonditamente che mi hanno veramente colpito. Non li cito, per correttezza, ma le e li ringrazio.
A ritrovarci nei prossimi contest.
Marcello.