Monica degli Zomegni nacque il 1° Aprile del 1600 dal matrimonio tra il Barone Menego degli Zomegni con Margherita Rosai.
La nobiltà degli Zomegni risaliva alla Prima Crociata, quella detta degli straccioni, quando un loro antenato, Eberardo, un carpentiere al seguito di Guglielmo Embriaco, lo aveva convinto di smontare le due navi con le quali erano sbarcati a Giaffa, per trasportarle fino a Gerusalemme dove, col legname delle stesse, avrebbero potuto costruire delle alte torri con le quali superare le massicce mura della città. Guglielmo, riuscendo nell’impresa, era penetrato nella città e aveva soggiogato i suoi abitanti. Fu durante uno degli assalti alle mura che Eberardo fece scudo col suo corpo possente, a quello di Roberto di Normandia, detto Cosciacorta, ricevendo al posto suo una freccia nemica che, nel dilaniargli una spalla, gli fece ottenere sul campo, da Goffredo da Buglione in persona, la nobiltà di barone e la partecipazione a un sessantesimo del bottino ottenuto dal saccheggio della perdente ricchissima città.
Il parto della baronessina avvenne prematuramente nell’anticamera della sacristia della chiesa dedicata alla Natività di Santa Maria Vergine di Belforte Monferrato, dove la madre s’era recata a confessarsi, proprio prima del gioioso evento. Chi l’assisté nel venire alla luce, trasformandosi all’occasione in un ostetrico, fu il giovane parroco stesso, Don Venare, che qualche giorno dopo la battezzò con quel nome che lasciava presagire una sua dedizione conventuale. L’essere nata in una chiesa, perseguitò non poco Monica nella sua vita futura ma non solo, quell’anticamera dove lei era venuta al mondo, le restò appiccicata come un’etichetta forgiata da un destino crudele.
È infatti nell’anticamera dello studio del padre che Monica impara a leggere e scrivere e far di conto, da un prete gesuita che le insegnerà anche l’umanesimo e la retorica ma non solo, le farà passare parecchie ore della sua giornata in preghiera, proprio in quella chiesa che l’ha vista nascere. Di carattere molto vivace, la bambina spesso mette in imbarazzo il proprio maestro con domande sulla vita, sulla sua origine e sul suo sviluppo. Non ottenendo risposte concrete elabora l’idea che, oltre alla creazione divina, ve ne sia un’altra molto più materiale. Spera un giorno di scoprirlo da sola, visto che nemmeno la madre le dà adeguate risposte sull’argomento. Diventa senza volerlo un’utente della locale chiesa a causa del suo istruttore gesuita che non solo le fa passare ore sull’inginocchiatoio posto davanti alla statua della Madonna della Sofferenza ma l’obbligherà anche a ricevere la Prima Comunione e la successiva Cresima. Questo farà sì che lei si allontani dalla religione e dalla credenza dell’esistenza di un dio. Sapendo che questo suo rinnego del sacro le potrebbe essere fatale, non ne fa mai parola con nessuno.
In un afoso giorno d’agosto del 1615, Monica assiste, nascosta nella sua solita anticamera, alle trattative di nozze che la riguardano, tra suo padre e il Duca di Monferrato, Ferdinando Gonzaga che da poco, svestendosi della sua carica di Cardinale, aveva ottenuto il territorio di Belforte, sul regnavano gli Zomegni. La grande differenza d’età fra i due, lui aveva quasi trent’anni, disgustò profondamente Monica che impersonando, con un’insospettabile dote d’attrice, un’evidente malattia mentale, entrò all’improvviso nello studio del padre, fornendo una pessima impressione al Duca che, credendosi raggirato, non solo annullò il contratto di matrimonio ma scacciò il barone Zomegni dalle sue terre, confiscandogliele e obbligandolo a rifugiarsi a Calice al Cornoviglio, in territorio spezzino, sotto il regno di Cosimo II de’ Medici.
Il barone Menego acquistò, nei dintorni del proprio castello, molta terra boschiva e divenne costruttore di vascelli, in seguito trasformatisi in galeoni, apprezzatissimi dai potenti del tempo, non solo per la loro maneggiabilità ma anche per la potenza di fuoco che potevano mettere in atto durante le battaglie sui mari.
A Monica, dotata di un’eccellente mano per il disegno, sarebbe piaciuto moltissimo partecipare alla trasformazione dei grandi tronchi in bellissimi bastimenti galleggianti ma, non essendo quello un lavoro degno di una donna, per giunta nobile come lei, si era allora rivolta all’astronomia. La curiosità per quelle luci brillanti che adornavano il cielo di notte e di quelle due enormi palle che lo decoravano spesso insieme anche di giorno, le avevano fatto desiderare di poterle ammirare meglio che non a occhio nudo.
Era riuscita a far acquistare da un mercante del padre, un telescopio di ultima generazione costruito da Galileo Galilei, un astronomo di Pisa che aveva confutato la teoria tolemaica aristotelica, offrendo in cambio quella copernicana eliocentrica. Monica aveva perfettamente sposato questa teoria e, quasi sempre di notte, ne acquisiva la sua validità tenendo un occhio sempre appoggiato a quel suo meraviglioso strumento. Spesso passava le notti nella cella campanaria della chiesa del paese. Il punto più alto da cui potesse scrutare il cielo stellato che tanto le piaceva. Sapeva di essere ancora una volta in un’anticamera. Questa volta quella della scienza astronomica e avrebbe voluto fare il passo successivo: trasferirsi a Firenze presso lo studio di Arcetri del grande astronomo che ormai vi era residente coatto.
Il Barone padre accettò la pazza richiesta di quella sua stravagante figliola, consentendole il suo nuovo destino a un solo patto: che non sposasse mai un plebeo.
Patto sugellato, Monica, con la carrozza baronale, raggiunse la città dei Medici e fu ben accolta alla scuola di Galileo, che prese sotto la propria ala quella strana personcina, più interessata a tutto l’universo che al solo pianeta sul quale era obbligata ad abitare.
Il Maestro era già sotto il controllo della Chiesa che non accettava quelle sue teorie che buttavano all’aria molti passi della religione cattolica cristiana e, non volendo che quella presenza femminile desse luogo a pettegolezzi, se non a delle nuove false accuse, fece vestire Monica con abiti maschili, cosa che alla ragazza non dispiacque affatto, rendendola trasparente agli sguardi maschili.
A lei Galileo affidò l’osservazione di tutti i pianeti di Giove, da lui scoperti solo qualche anno prima. Fu Monica degli Zomegni a disegnare le varie tavole e a scrivere dei trattati sugli stessi, pervenutici fino ai giorni nostri ma sotto il nome del maestro medesimo che, sempre con la scusa della protezione, continuava a mantenerla in quell’anticamera alla quale lei cercava di sfuggire ormai da sempre.
Nel 1618 Monica fu inviata in Boemia per l’acquisto di alcune lenti necessarie alla produzione dei cannocchiali di Galileo, quando venne bloccata dall’inizio di quella guerra, chiamata dei trent’anni a causa della sua durata. Non essendo una delle sue qualità la passività, ben presto si trovò a far da assistente sul campo di battaglia a un giovane chirurgo, appartenente alle truppe della Forza Cattolica. Malgrado l’orrore delle amputazioni, le grida dei feriti e le morti improvvise, tra i due sbocciò l’amore. Per un sicuro scherzo del destino, Monica donò il fiore della sua verginità al bel medico, nell’anticamera di un ospedale da campo, tra bisturi, seghetti, pinze e divaricatori che in tutta fretta le cedettero il posto su di una improvvisata barella per il trasporto dei cadaveri.
Il Barone Zomegni, nel 1625, inviò un suo fido, ex Comandante di uno dei suoi galeoni, a riprendere la figlia. Monica seppur non contenta di dover ancora sottostare alla volontà del genitore, rientrò in patria e in fine fu felice di aver abbandonato quella mostruosa carneficina dove aveva conosciuto l’amore, la guerra e il tremendo dolore per la morte del suo amatissimo chirurgo, ucciso da un colpo di bombarda mentre sul campo di battaglia stava cercando di ricomporre una frattura a un soldato.
La vita di Monica da quel momento in poi sarà dedicata ad alleviare le sofferenze fisiche degli ammalati negli ospedali di Genova e quelle materiali dei poveri nel suo Baronato. Quando la gente comune la vedeva passare, malgrado lei non lo volesse in assoluto, spesso s’inginocchiava e tendeva le mani cercando di toccarla nella speranza di veder esaudito qualche proprio recondito pensiero. Monica era schiva a queste cose e si rifugiava nello scrivere poesie ad alto contenuto morale e amoroso. La gente mormorava di guarigioni miracolose avvenute per suo intervento divino senza sapere che erano state le sue conoscenze sul campo di battaglia, a farle mettere in pratica il semplice uso del sapone, il lavaggio delle ferite o la pulizia con l’alcol delle mani.
Lei si considerava un vero dottore mentre i sudditi del suo baronato la ritenevano invece una santa. Non sarà però così. È la sua solita etichetta che la perseguita e questa volta sarà la sua finale. Sarà infatti proclamata solo beata, l’anticamera della santità, dopo la sua morte avvenuta nel 1667 a Genova durante la famosa peste. La sua salma, per sua espressa volontà, fu traslata per i funerali alla chiesa dove era venuta alla luce e fu Don Venare, il vecchio parroco ormai ultra ottantenne, a officiare le esequie. Fu tumulata nel piccolo cimitero annesso alla chiesa. Pochissimo tempo dopo la sua morte le fu accreditata la guarigione, ritenuta miracolosa, di un bambino affetto dalla stessa tremenda malattia che aveva ucciso proprio lei. Dichiarato morto, il piccolo, che lei aveva assistito e curato, era già stato gettato sul mucchio di corpi dentro a un carro di appestati, quando un monatto l’aveva udito piangere e l’aveva recuperato per riportarlo alla sua famiglia.
Dal 1698 una sua statua lignea, creata dalla polena di un vecchio vascello in disarmo, fu venerata nell’anticamera della sacrestia della chiesa di santa Maria Assunta di Calice al Cornoviglio. Per lei, nata in un luogo identico a quello dove la sua effigie era stata esposta, era stato senz’altro un ritorno alle origini. Avrebbe usufruito a lungo dell’ospitalità di quel luogo sacro. Nel 2008, una scossa tellurica di magnitudo quattro, devastando il territorio ridusse in macerie una parte dell’antica chiesa.
La statua andò perduta. Si ritenne bruciata nell’incendio occorso in seguito al terremoto.