Josefa lasciò il capanno di corsa e attraversò il lungo campo a piedi nudi, stando attenta a non calpestare i bulbi. Lo faceva perché ogni volta che ne aveva schiacciato uno era successo qualcosa di brutto, e per questo aveva dovuto sotterrare nei campi numerosi amuleti, per proteggersi.
Si fermò soltanto quando raggiunse il suo prato preferito. Era accaldata, ma non per la corsa. Quella vibrazione che sentiva sconvolgerle l’interno rendeva la pelle sensibile alla brezza.
I suoi capezzoli erano turgidi e lei, ansimante, si distese sull’erba. L’odore dei fiori e della terra ancora umida distese i sui nervi tesi. Solo in quel momento tirò un sospiro di sollievo.
E dire che quando la madre le aveva mostrato quel prato la prima volta, Josefa era fuggita terrorizzata. I fiori che vi crescevano erano simili al croco, coltivato nei campi del podere; ma invece di essere tutti in fila, lì erano sparsi ovunque, senza un ordine.
Si era rasserenata solo quando la madre le aveva mostrato, tramite una ricerca nell’internet, che quei fiori, letali, si proteggevano da soli. Da quel giorno lontano, quando era sconvolta, andava sempre lì per sentirsi protetta da quei fiori venefici.
Il re, Juan Carlos I, aveva abdicato in favore del figlio Felipe.
Josefa non sopportava l’inaspettato. I sovrani, come le persone normali, dovevano morire, essere sepolti sotto una coperta di terra e da lì proteggere i successori. Quel dogma lo aveva imparato dopo la morte della madre, perché tutti le avevano detto che, anche se sotto terra, l’avrebbe protetta per sempre.
Era così turbata da essere uscita con una sottoveste che le lasciava scoperto gran parte del seno. Il suo piccolo seno che tanto faceva impazzire Rafael.
Si sfiorò il petto con la mano ma, questa volta, il pensiero di lui non riuscì a rasserenarla. Si voltò irrequieta, annusò la terra, poi l’afferrò con entrambe le mani e desiderò che l’accogliesse nel suo abbraccio protettivo.
Quell’immagine era così reale da farle spingere ancora di più il corpo contro il terreno. La scossa che partì dall’inguine le mise sottosopra le viscere. Non capiva se era più terrorizzata o eccitata: le due sensazioni combattevano in lei, esasperandola.
Nel frattempo Rafael, rimasto al capanno, si malediceva per aver dato così quella notizia a Josefa. Era lui che solitamente l’aggiornava su ciò che succedeva nel mondo, dato che lei non possedeva né un telefono né una televisione. Sapeva bene che certe notizie la sconvolgevano, ma quella mattina l’aveva trovata particolarmente di buonumore; quindi, senza pensarci troppo, le aveva riferito dell’abdicazione.
Ormai da mesi trascurava di controllare i campi e i lavoratori: dopo aver conosciuto Josefa, il suo mondo si era ristretto intorno a lei e alle sue stranezze. Ma il tempo che avevano per stare insieme era sempre poco, quindi decise di raggiungerla dove era certo di trovarla: nel suo prato preferito.
La trovò appisolata in mezzo ai fiori, con il viso rivolto versa la terra e la sottoveste che le svolazzava intorno: sembrava immersa in un sonno irrequieto.
Senza fare rumore, le si mise di fianco. La visione della sua ninfa lo infiammò a tal punto che le posò una mano sulla caviglia. Josefa si sollevò di scatto, ma Rafael riuscì a tenere ben salda la presa. Il suo tocco divenne subito meno brusco e lui le sfiorò il piede con le labbra.
Josefa non riusciva mai a sottrarsi a quei baci. Lui teneva gli occhi chiusi mentre con la bocca risaliva lungo la gamba. Lei, scossa dai brividi, dimenticò il pericolo incombente, e riaffondò il viso tra i fiori che tanto amava.
Solo quando la mano di Rafael le arrivò tra le cosce si rese conto di non avere gli slip. In risposta al suo tocco esperto, Josefa divaricò le gambe e lasciò che le dita trovassero quello che bramavano con tanta passione.
Un gemito rivelò il punto e Rafael, con maestria, prese a giocarci finché Josefa non giunse all’estasi. Non appagato, le poggiò delicatamente le labbra sui capezzoli turgidi e lei vibrò come uno stelo al vento. Rafael, ormai inarrestabile, le baciava ogni parte del corpo. Si soffermò a lungo sull’inguine, dove i baci si fecero più intensi. Quando percepì che la donna si era completamente abbandonata a lui, le infilò la testa tra le gambe, deciso a portarla all’apice del piacere.
Josefa, all’improvviso, si irrigidì e urlò terrorizzata.
«Hadita, Ti ho fatto male? Che succede?»
Josefa, sudata e ansimante, con i capelli neri davanti al viso, scosse il capo in silenzio. Non riusciva mai a dare una spiegazione a quello che faceva: sentiva solo che doveva essere fatto e che nessuno avrebbe capito.
«Se è per la questione del re, ti chiedo scusa. Non dovevo dirtelo in quel modo, ma vedrai che con il nuovo Re Felipe le cose miglioreranno. La Spagna ha bisogno di nuova linfa.»
Lei scosse il capo con decisione.
«Hadita. Se le cose non andranno bene, ti proteggerò io.»
«Per sempre?»
«Per sempre.»
Josefa sembrò mutare di colpo. I suoi occhi, dapprima lacrimosi, brillarono di nuova energia. Si tolse Rafael di dosso e iniziò a raccogliere i fiori. Lui intuì che la crisi era passata, ma era ancora eccitato. Vederla rasserenata accrebbe in lui il desiderio e iniziò a giocare tirandole la sottoveste.
Trafelati, tornarono al capanno dove Josefa abitava da dieci anni. Era stato lui che, all’incirca un anno prima, l’aveva scoperta a vivere lì da sola e in uno stato pietoso. Quella ninfa eterea e slanciata lo aveva ammaliato e lui l’aveva aiutata a costruire la piccola veranda di fronte all’ingresso per aggiungere spazio nella vita della ragazza.
Josefa l’aveva immediatamente adorata perché le assi erano nuove, diritte e levigate. Diceva sempre di avere maggior controllo lì che all’interno del capanno, dove tutto era rappezzato e caotico. Infatti, dopo la costruzione della veranda, l’interno era stato trascurato quasi totalmente; al contrario, spazzava e rassettava con gran cura tutto quello che stava nella veranda, fossero le erbe e le spezie appese a essiccare o quelli che lei chiamava “i suoi amuleti”.
Anche se Rafael detestava quelle cianfrusaglie, perlopiù bottoni e nastri, che sapeva provenire dal podere, aveva scoperto che per lei erano molto importanti, e si accorgeva che li spostava in continuazione, in un ordine che conosceva soltanto lei.
Appena misero piede sulle assi della veranda, Josefa, con abile gesto, spostò un amuleto, si liberò della vestaglia poi si abbandonò sulla poltroncina in vimini. Ogni ninnolo appeso in veranda tintinnò e Rafael vibrò per la smania.
Nei mesi precedenti avevano scoperto, quasi per magia, di possedere le giuste combinazioni che li portavano a raggiungere orgasmi così intensi da lasciarli assuefatti per giorni: era così che era nato il loro legame.
Josefa vide che Rafael non era intenzionato a muoversi, dunque afferrò un fascio di citronella, che aveva messo da poco a essiccare, e gli sferzò le poderose cosce. L’uomo ebbe un brivido, ma non le chiese di fermarsi; anzi, a ogni nuova percossa, la sua eccitazione diventava sempre più evidente.
Josefa accarezzò delicatamente con il mazzo di citronella il pene eretto di Rafael che, sotto quelle carezze, sussultava. Lui si liberò dei pantaloni e si avventò su di lei con una risata. La sollevò di peso dalla sedia e la baciò sul collo e tra i seni.
Rimasero avvinti per parecchio tempo senza fare nulla, in attesa che il desiderio non fosse più contenibile. Quando Rafael girò Josefa, lei allargò le gambe, posò le braccia sulla ringhiera della veranda e affondò il viso tra le erbe. Quell’odore terroso e vegetale aveva sempre il potere di farla bagnare all’istante.
Rafael la penetrò con spinte poderose ma mai violente, e il loro mondo assunse una nuova dimensione.
Dentro Josefa non c’era più spazio per le cattive emozioni; l’eros e la tenerezza si mescolarono, dando origine a un legame potente, quasi una fissazione che le fece prendere il sopravvento. Sdraiò Rafael a terra e danzò con le mani poggiate sul petto, poi continuò con quei movimenti lenti del corpo a eseguire una danza che faceva piovere ovunque foglie e fiori.
Quando il coinvolgimento di mente, corpo e anima fu totale, raggiunsero l’orgasmo. I loro corpi vibrarono da dentro a fuori, dalle dita dei piedi alla testa, fino a perdersi l’uno nell’altra.
Josefa fu la prima a sollevarsi. Prese la scopa e iniziò a spazzare le foglie cadute sulla veranda. Poi, come in un rituale, cambiò posto a ogni amuleto.
Rafael la guardava completamente rapito. Non riusciva ancora a capire come mai fosse finita lì. Era strana e a volte faceva cose bizzarre, ma rimaneva una ragazza giovane e bella che avrebbe dovuto avere molto di più dalla vita. Era certo di poterle dare un futuro. Ma finché fosse vissuto il padre, quello rimaneva solo un sogno.
Era una famiglia di contadini, ma non di quelle povere. Da quando, un secolo prima, i suoi avi avevano cominciato a coltivare lo zafferano, erano diventati ricchi e stimati al pari dei sovrani. E, come i re, vivevano ingabbiati nelle vecchie tradizioni. Anche se Rafael era figlio della modernità, le sue scelte di vita erano ancora dettate delle esigenze della famiglia.
«Mangi con me?» chiese Josefa rientrando nel capanno.
«Vorrei tanto, Hadita, ma ho detto che sarei tornato per pranzo.»
«Ma ho già messo su il riso, lo zafferano e il chorizo.»
Rafael recuperò il telefono. Dubbioso, cercava di capire quanto tempo avesse a disposizione: al podere si mangiava sempre all’una e mezza.
Guardò Josefa e ogni dubbio svanì: stava staccando delicatamente gli stami dai fiori, aveva le mani ricoperte di polvere arancione e sorrideva mentre sussurrava parole dentro ai vasetti.
Quando vide che lui la guardava gli sorrise e, con le mani sporche, gli toccò il viso mormorando le parole «Per sempre.»
In poco tempo il riso fu messo sul tavolo apparecchiato in veranda.
Rafael stava per sedersi quando lei urlò: «Non lì. Quello è il mio posto. Vuoi forse che succeda qualcosa di brutto?»
«Scusami.»
Mortificato, si sedette sull’altro posto e si servì dalla grande padella.
Non aveva molto tempo, quindi iniziò a mangiare in fretta. La sua bocca era ancora piena di riso quando fece una smorfia.
«Hadita, ma quanto zafferano ci hai messo?»
«Oh… Quello non è zafferano.»
Josefa socchiuse le labbra e iniziò a sussurrare delle parole. Rafael la vide innocente e bella come una ninfa e si riaccese in lui la voglia di appartenerle. Si portò alle sue spalle e con la mano le sfiorò l’areola, mentre le baciava delicatamente la spalla. Lei non si mosse, guardava fissa oltre la veranda. L’immagine della terra che si squarciava e li inghiottiva la fece vibrare per il piacere.
Rafael si fermò intontito, sbatté le palpebre, poi all’improvviso iniziò a sussultare. Qualcosa gli impediva di respirare. Si portò le mani alla gola e cadde riverso a terra.
Josefa aveva il volto rigato dalle lacrime.
Guardò fisso l’uomo che diceva di volerla proteggere per sempre: la sua presenza le suscitava un caldo sentimento di appartenenza quasi viscerale. Dopo quel sacrificio finale le sarebbe appartenuto per sempre, e per sempre l’avrebbe protetta. Come le radici nella terra, che proteggono e sostentano la pianta: due entità che si appartengono, una sotto e l’altra sopra.
Come sua madre, che dieci anni prima l’aveva protetta durante l’attentato di Atocha.
Rafael, in preda alle convulsioni e con la bocca schiumante, riuscì con un ultimo sforzo a stringerle la caviglia.
Josefa ebbe un fremito: la scarica elettrica che partì dal ventre la eccitò. I capezzoli divennero subito rigidi e un gemito le uscì dalla gola. Continuò a sentirsi così per tutto il tempo, mentre Rafael lasciava questo mondo.
Raggiunse l’apice del godimento nel momento esatto in cui lui spirò.
Ora si sarebbe sentita protetta.