Il taxi si ferma davanti al grande cancello in ferro battuto sormontato da un elegante fiore stilizzato. L’autista scende ed estrae dal portabagagli il trolley della cliente.
«Da qui dovrà proseguire a piedi» e, rivolto uno sguardo preoccupato verso le scarpe décolleté indossate dalla donna, incassa il prezzo della corsa poi, sparisce in una nuvola di polvere dietro la curva.
Edith Kovács si avvicina al cancello, spinge l’inferriata e quella si apre senza un cigolio. Dopo un attimo di perplessità, ispeziona in giro: il vialetto, costeggiato da un delizioso prato all’inglese, è costituito da ciottoli bianchissimi che riflettono la luce calda del sole autunnale. Meglio cambiarsi le scarpe, pensa, prima di trasportare il bagaglio a mano.
Il casolare è ancora più bello di quanto facessero sperare le foto su internet, la porta d’ingresso è socchiusa.
«È permesso?»
Nessuna risposta.
«Buonasera, sono la signora della prenotazione on line!»
«Ancora un attimo e sarò da lei. Entri pure.» La risposta arriva come un’eco nella stanza.
Nell’attesa, Edith si guarda intorno. Le mura a pietra, le travi di legno sul soffitto, un vecchio camino, spento, al centro del salone. Fiori freschi sui tavolini. L’aria profuma di pulito.
Sente la necessità di ravviarsi i capelli.
«Buonasera, mi scuso per l’attesa.» La donna appena entrata indossa un abito in maglia rosso rubino che ne sottolinea le curve. I capelli biondi, pettinati con cura in uno chignon alto, esaltano la lunghezza del collo e incorniciano il volto di una bellezza antica.
«Nessun problema, è così bello questo posto!»
«Milesia, Milesia Altieri, molto piacere di averla ospite qui da noi» le offre una stretta di mano calda ed energica.
«Edith Kovács. Il piacere è mio, signora Altieri.»
«Milesia» risponde la donna guardandola dritto negli occhi «dammi pure del tu come si usa da queste parti, se ti fa piacere.»
Edith sente il rossore infiammarle il viso.
«D’accordo… Milesia.»
«Ungherese?»
«Sì, di Budapest. Ma adoro l’Italia e il suo clima.»
«Complimenti, parli un ottimo italiano.»
«Grazie. Tutto merito del mio ex marito. Era da tanto che non ci tornavo. L’ultima volta fu per assistere a una sua conferenza. Era il 10 ottobre del 2015. Eravamo felici, allora. E ora sono qui, lo stesso giorno di sei anni fa, ma da sola.»
Milesia coglie la nota amara della risposta. «Ah… si vede che sei stata una brava allieva», sdrammatizza. «Bene, ora vieni con me, ché ti mostro la camera.»
Salgono al piano superiore. Quando inserisce la chiave nella toppa, Edith ammira la manicure della donna, perfetta se non fosse per delle piccole macchie gialle sui polpastrelli.
«Ti auguro un piacevole soggiorno. Quando ti sarai riposata, se lo desideri, ti farò fare una visita della tenuta.»
«Certo, con molto piacere! A più tardi, allora.»
Appena scesa, Edith si lascia avvolgere dal tepore buono che scalda la stanza. «Mi dispiace, dopo la doccia mi sono addormentata.»
Milesia siede davanti al camino acceso con un libro aperto sul grembo e lo sguardo perso nei giochi delle lingue di fuoco. Si volta verso di lei, le sorride comprensiva; guarda di sfuggita l’orologio da polso. «Sì, è un po’ tardi per la nostra piccola escursione. Posso offrirti una delle nostre tisane?»
Edith annuisce «Grazie, Milesia.»
«Vanni, puoi apparecchiare in veranda?»
Un uomo di mezza età si materializza nella stanza: è sudato, indossa dei guanti da lavoro e ha lo sguardo sfuggente.
Una ruga impercettibile segna la fronte di Edith.
«È un brav’uomo e un ottimo aiutante. Lavora per me da una vita» si affretta a rassicurarla Milesia.
La veranda, un loggiato chiuso da ampie vetrate scorrevoli, offre un panorama mozzafiato: un meraviglioso campo fiorito ondeggia sotto le carezze di un vento leggero; sembra un lago viola incorniciato da dolci colline sullo sfondo. Tutto intorno, la campagna è scaldata dai colori dell’autunno incipiente.
L’ambiente è curato e ospitale: un comodo divano bianco, un tavolino con un bricco fumante, biscotti rustici e due tazze in porcellana finissima. Le due donne siedono una di fianco all’altra.
«Zucchero o miele?» chiede Milesia premurosa.
«La preferisco al naturale. Ha un così buon odore. Che erba è?»
«La raccolgo io, da queste parti» risponde, evasiva, la padrona di casa.
Bevono a piccoli sorsi, senza parlare, godendo il momento.
«Dimmi di te. Perché questo viaggio?» Milesia rompe il silenzio.
Edith indugia sul vapore azzurrognolo che esala dalla tazzina. «Un matrimonio fallito può bastare?»
«Capisco…» inizia a giocare col ciondolo della collana «un’altra donna?»
«Sì, più giovane. Come da cliché, ma non vorrei parlarne. Ora voglio pensare solo a me stessa.»
«Sei nel posto giusto» Milesia le prende la mano «fidati.»
Edith la ritrae subito. Rivolge lo sguardo altrove e cerca di riprendere la conversazione nel modo più naturale possibile. «Milesia, cosa sono tutti quei fiori? Sono stupendi!»
La donna ruota la tazzina tra le mani, la porta alle labbra e beve un ultimo sorso prima di rispondere.
«Fiori di zafferano. Belli, vero? Peccato che fra pochi giorni inizi la raccolta. Dovremo attendere il prossimo anno per rivedere questo spettacolo. Sei fortunata, Kovács.»
«A quanto pare è così. Non ci sono altri ospiti oltre me? Non ho ancora incontrato nessuno.»
«No, nessun altro; accogliamo un villeggiante alla volta, così possiamo offrire un’esperienza esclusiva ai nostri clienti. Non è per questo che ci hai scelto?»
«In effetti è molto più di quanto mi aspettassi, farò un’ottima recensione.»
«Grazie, sei molto gentile.»
«E così, quelli sono fiori di zafferano. So che è una spezia pregiata, il mio ex marito impazziva per il riso… come si dice…»
«Alla milanese. Un piatto del nord Italia.» Milesia completa la frase. Poi, cerca gli occhi di Edith e prosegue abbassando il tono di voce «ma lo zafferano è molto più di una spezia da usare in cucina.»
Edith trattiene a fatica un sospiro. «Non vedo l’ora d’imparare tutto quanto.»
«Domani, certo. T’insegnerò ogni cosa. Promesso.»
La notte Edith non riesce a chiudere occhio. Nel silenzio può sentire la risacca del suo stesso respiro e il sordo ticchettio del cuore. Frammenti di immagini si susseguono senza sosta, in un mulinare di emozioni sconosciute e vivide. Albeggia quando bussano alla porta.
«Edith, sei sveglia? Se vuoi scendere, la colazione è pronta.»
Controlla lo smartphone sul comodino: le sei e trenta. Si guarda allo specchio. Ha i capelli in disordine e gli occhi segnati.
Milesia indossa dei pantaloni color verde militare, una camicetta a fiori che lascia intuire un seno generoso e degli stivali in gomma. Un largo cappello in paglia completa l’abbigliamento campestre.
«Porti un trentanove, vero?» Le porge un paio di scarpe adatte per scendere nel campo.
Una volta uscite all’aperto, la leggera brezza del primo mattino dissipa in fretta le ombre della notte. I piccoli fiori, in attesa di dischiudersi sotto i primi raggi del sole, impregnano l’aria di un delicato aroma dolce amaro. Edith chiude gli occhi e respira a fondo.
Milesia la precede di alcuni passi. «Vanni passa ore e ore piegato ma la fatica vale ogni singolo minuto speso, credimi.»
Il contadino è in ginocchio, le spalle ricurve verso il terreno; se non fosse per la cesta di vimini al suo fianco, sembrerebbe in preghiera.
Milesia lo avvicina: «Puoi andare, ora» gli bisbiglia all’orecchio.
L’uomo si alza senza emettere un fiato, guarda di traverso le due donne e, in breve, sparisce dalla loro vista.
«Lo sai che ci vogliono centocinquanta fiori per fare un solo grammo di spezia? Edith, guarda questa piccola meraviglia.» Milesia coglie un fiore, ne accarezza i petali, li apre con delicatezza; tre stimmi rossi si mostrano turgidi sotto le sue dita esperte: «Questa è la parte preziosa: la parte femminile.» Poi, senza distogliere lo sguardo da Edith, prosegue «la polvere gialla che vedi è polline, la parte maschile» la soffia via «non serve a niente» conclude. «Vuoi provare?»
Edith coglie un fiore a sua volta. «È come stringere tra le dita una nuvola…» sussurra. Sfoglia i petali a uno a uno, dischiude le labbra per soffiare via il polline, poi stacca i tre stimmi. Si muove con lentezza, sotto lo sguardo vigile di Milesia.
«Faccio bene, così?»
«Sì, brava, non ci vuole fretta.»
Segue le istruzioni con diligenza, il tempo sembra essersi distratto, i pensieri vagano leggeri. Edith si rende conto di non aver pranzato che il sole è già basso sull’orizzonte.
Si guarda intorno: Milesia non è più lì, chissà da quanto. Dopo ore di lavoro, il cestino è ancora vuoto. Prova ad alzarsi, ma si sente sprofondare nel terreno. Le gambe tremano, il cuore salta i battiti come un vinile rotto. Un bisbiglio confuso le risuona in testa e in bocca sente un sapore acido. Trasalisce sentendosi afferrare per un braccio.
Quando si riprende è completamente nuda come Milesia sdraiata accanto a lei sul divano. Via via che recupera la lucidità riconosce la veranda illuminata da decine di candele: dalla vetrata, il colore viola del campo sfuma nel rosso cupo del tramonto.
Si rende conto di avere i polsi legati dietro le spalle. Un rivolo di sudore che scende dalla fronte, le brucia gli occhi facendoli lacrimare. Prova a gridare ma produce solo un mugolio sommesso.
«Shhh! Fai la brava Edith Kovács, non serve parlare. Non devi sforzarti.» La donna l’accarezza con dolcezza. Non riesce a sottrarsi a lei, neppure quando le dita si fanno strada verso la sua bocca, aprendole le labbra per poi scendere di nuovo fino a pizzicarle i capezzoli e infine sfiorarle il clitoride «Edith, Edith… stai calma. Non agitarti. Ci sono io a prendermi cura di te adesso. Aspettami qui. Non muoverti.»
Torna dopo un attimo con una bacinella inizia a lavarla. «Acqua e zafferano. Oro, come i tuoi capelli» ne prende una ciocca e ne aspira l’odore «sei bellissima, sai? Proprio un bel fiore. Non tremare, fidati di me.»
L’acqua tiepida cola sui seni, un fiume dorato che scorre, allaga la fossetta dell’ombelico, per sfociare nel delta nel suo sesso. Milesia segue con la lingua il corso del ruscello, se ne disseta, insaziabile come se quel liquido la rigenerasse dopo un lungo cammino nel deserto.
La pelle freme sotto le carezze, non posso, non devo! pensa Edith ma la volontà non riesce a combattere contro i desideri del proprio corpo che, suo malgrado, inizia a fluttuare e a pretendere le attenzioni di Milesia. Edith geme, solleva il bacino, sempre più audace, incapace di frenare, pronta ad accogliere il ritmico pulsare del paradiso; quando, alla luce tremula, vede l’ombra di Vanni e il frenetico movimento della sua mano, sente un calore mai sperimentato prima.
Milesia le accarezza la testa come per coccolare una bambina poi, cerca le sue labbra. E le succhia. Sopra e sotto.
Edith si risveglia nel cuore della notte coi polsi indolenziti e la testa vuota. L’odore acre delle candele spente le dà la nausea. Cerca di sollevare la testa, pesante come un corpo morto.
«Ho sete» sussurra con un filo di voce.
L’ombra si stacca dalla parete e le porge un bicchiere d’acqua. Vanni è rimasto lì tutto il tempo. Le sorregge la testa e l’aiuta a bere.
«Ti prego, aiutami. Voglio andare via.»
L’uomo biascica qualche parola sconnessa «No! No, signora. Non puoi andare via. Mai.»
Ora che l’osserva da vicino, le sembra di riconoscere nel volto del contadino, quello del tassista.
«Ma tu…»
«Zitta! Non alzare la voce.»
«Posso sapere dove sono? Dov’è la signora Altieri? Che razza di posto è questo? Potresti almeno restituirmi il cellulare? Devo… devo fare subito una telefonata.»
L’uomo non risponde. Aiuta Edith a scendere dal divano, le porge una vestaglia di seta come ordinatogli dalla padrona di casa, e accende una candela.
Edith non l’aveva notata prima, ma nella veranda c’è una porta. Vanni estrae una chiave dalla tasca dei pantaloni, l’apre e la invita a seguirlo. Una volta entrati, l’uomo illumina un primo quadro appeso alla parete, poi un secondo, poi un terzo. Tutti ritratti di donne: alcune indossano abiti sontuosi, altre vestiti modesti da popolane, altre ancora jeans e camicette; un’immensa galleria di volti femminili di ogni età ed epoca. Il corridoio conduce a una stanza senza finestre; nell’aria un forte odore di solvente. Vanni illumina un’ultima tela ancora sul cavalletto: il ritratto una donna bionda senza volto.
Edith deglutisce a vuoto.
«Capisci, signora, perché non te ne puoi andare? È già tutto pronto.»
«No, no… ti prego. Fammi andare via da qui. Subito.»
«Silenzio ho detto! Vuoi svegliare la tua amica?»
«Non ho alcuna amica.»
«Bugiarda… Non sono stato io a scoparmi Milesia tutta la sera» dice facendo roteare la lingua; poi si piazza davanti alla porta e non la lascia passare.
Un rigurgito acido le corrode la gola.
«Però… forse… se sarai carina con me, potrebbe venirmi voglia di aiutarti.»
Edith si appiglia alle sue parole con la forza della disperazione. «Tutto quello che vuoi. Farò tutto quello che vuoi, prometto.»
«Quand’ è così…» le infila una mano tra le cosce, si avvicina all’orecchio e bisbiglia: «sai, mia cara, qual è il segreto per avere fiori tanto belli?» grugnisce «il concime, bella mia, è il concime. Niente è meglio di un buon cadavere per ottenere un buon concime. Se poi è di femmina, di una bella femmina, il risultato è sicuro.»
Edith sente le gambe cedere e un turbinare di voci strazianti urlarle dentro la testa: «Le donne dei ritratti…»
Il contadino mima un applauso. «Eh già! Hai indovinato. Milesia l’ha detto subito che sei una donna intelligente. Davvero un peccato che abbia perso la testa per te. Proprio un peccato. Non doveva succedere. Il Signore è stato chiaro: lei deve procurargli le anime, e lui, in cambio, le concede eterna vita e bellezza. Io devo solo servirla, seppellire i corpi... badare che gli ordini del Signore siano rispettati. Mi pare un contratto ragionevole… Non credi?»
Edith deterge la fronte col palmo. Respira a fondo e, con uno scatto fulmineo si divincola dalla presa dell’uomo, lo strattona, gli sputa in faccia «maledetto porco!»
Il contadino si affretta a tapparle la bocca, la soffocherebbe di certo se lei non fosse, di nuovo, pronta a reagire. Stringe il sesso inguainato dai pantaloni, tira giù la zip, accarezza il pene eretto, e inizia a masturbarlo. L’uomo allenta la presa.
«La tisana di erbe, ricordi? Milesia non ci ha messo tutto ciò che doveva. L’ha buttato via, capisci? Io… io l’ho vista farlo» geme «la strega ti voleva tutta per sé. Non voleva farti morire. Puttana! L’ha fatta davvero grossa. Ha… Ha combinato un guaio. Un grande guaio. Il Signore si è arrabbiato. Molto. Anche con me ma io gliel’ho detto che non ho colpa, non ho colpa!»
Edith approfitta del momento per insistere.
«Vanni, ti prego, aiutami a fuggire.»
Ma una luce maligna scintilla negli occhi del contadino «No!» risponde deciso «Ti aiuterò a restare viva, invece. Per sempre, se ti comporterai bene.»
Edith entra in veranda e attende il ritorno di Milesia. Quando la vede arrivare, le corre incontro, l’abbraccia e la bacia a lungo. «Stavolta posso legarti io?» le sussurra all’orecchio.
«Sì Kovács, mi fido di te.»
Più tardi, Edith seduta sul divano, posa le labbra sulla tazzina di porcellana e soffia sul liquido bollente per raffreddarlo un po’. Dalla vetrata può vedere il contadino chino sul campo intento a scavare una fossa profonda.
* * *
«Sono Katharina Mölder, ho fatto la prenotazione on line» dice la donna appena entrata.
«Ben arrivata! Sono Edith Kovács, è un vero piacere averla ospite qui da noi» risponde la padrona di casa porgendole la mano.
Sulla parete, il ritratto di Milesia si contorce in un ghigno infernale.