Da bambino Gerd Kremer si chiedeva sempre come potesse fare suo padre Helmut, addetto al cimitero di Potsdam, a esumare i morti. Più volte glielo aveva chiesto e lui aveva risposto laconico: «Con il tempo si fa l’abitudine a tutto». L’avrebbe capito qualche anno dopo.
Un giorno Gerd, giocando fra le tante cose in soffitta, trovò una scatola con vecchie foto. La sua attenzione fu attratta da alcune di queste che erano contenute in una pagina di giornale ripiegata. Quello che vide e lesse gli parve raccapricciante.
L’articolo del quotidiano, datato 15 febbraio 1957 parlava di una strana esumazione dei resti di un certo Klaus Eisaugen, morto quasi cinquanta anni prima. Eisaugen era sospettato della morte di un uomo e di due donne, trovati barbaramente uccisi nelle rispettive case. Il tratto comune di quei delitti era che le vittime erano state private dei bulbi oculari. L’uomo aveva cercato di sfuggire all’arresto ed era stato ucciso dai gendarmi. Dalle indagini fatte, pare che si trattasse di una vendetta nei confronti di chi aveva testimoniato contro il figlio, accusato ingiustamente di cospirazione. Le tre vittime, avevano giurato nel processo di aver visto con i propri occhi il giovane incontrarsi più volte con noti sovversivi, determinando così la sua condanna a morte. In realtà sembrava che la loro testimonianza fosse stata orchestrata dai servizi segreti dell’imperatore, alla ricerca di un capro espiatorio da gettare in pasto all’opinione pubblica.
La cosa più curiosa, messa in luce dall’articolo, era che il cadavere, dopo tanti anni, era stato trovato in uno stato di conservazione impressionante, così che avrebbe potuto sembrare deceduto poco tempo prima.
Le foto, in bianco e nero, conservate nel foglio di giornale mostravano suo padre con un piccone in mano, circondato da altre persone ben vestite e da un poliziotto. Tutti stavano osservando quello che restava di Klaus Eisaugen. Una foto, in particolare, era un primo piano della testa del cadavere che mostrava nei dettagli l’incredibile stato di conservazione e un’espressione del volto che Gerd giudicò come un ghigno feroce.
Trattenne a stento un grido di terrore, rimise tutto a posto e non ebbe mai più il coraggio di guardare quelle foto che, tuttavia, rimasero per sempre impresse nella sua memoria e gli avrebbero fatto compagnia per tutta la vita nei peggiori incubi notturni.
Nel palazzo di cinque piani con vista sul porto di Odessa dove abita è conosciuto come “il tedesco”. Gerd Kremer occupa l’appartamento all’ultimo piano e di lui in giro si sa ben poco. È arrivato dalla Germania pochi mesi fa; avrà poco più di settanta anni. È grassoccio, molto basso di statura; porta occhiali con lenti spesse, per correggere una fortissima miopia e quando ti guarda strizza gli occhi, come se volesse mettere a fuoco i tuoi pensieri, la tua anima. Ma forse è solo un’impressione dovuta al suo difetto di vista. È sempre vestito decentemente, anche se un po’ fuori moda, ma del resto è il tipico soggetto a cui non starebbe bene niente.
I pochi che ci hanno scambiato qualche parola dicono che conosce abbastanza bene la lingua ucraina e molto bene il russo.
Quel poco che si sa di lui si deve all’intraprendenza della signora Olga, quella del piano terra, la pettegola del palazzo, che ha azzardato alcune domande. Olga racconta però che le sue domande ricevono risposte generiche che si concludono sempre con una nuova domanda rivolta a lei.
«Come dice, signora Olga? Cosa faccio qui a Odessa? Niente di particolare, sopravvivo, da pensionato. Mi sono trasferito qui in Ucraina perché la vita in Germania è molto più cara di qui. Con la mia pensione non mi potevo più permettere la mia casa a Postdam… E lei? Da quanto tempo abita qui?»
«Io? Ci sono nata. Dunque, è riuscito a permettersi l’appartamento all’ultimo piano, quello con l’affitto più alto. Chissà quanto costerà, con quel bel terrazzo coperto con la vista sul porto…»
«La mia casa qui mi costa la metà e la bella vista che si gode dalla veranda mi rilassa… ma, allora, immagino che lei conoscerà tutti nella zona. Anche chi lavora giù al porto».
«Ah sì, certo. Li ho visti tutti piccoli, ai tempi dell’Unione Sovietica. Chissà se ci ritroveremo come allora? Tutti quei soldati russi al confine mi preoccupano. Che dice, signor Kremer, ci invaderanno?» Olga si fa il segno della croce.
«Tutte esagerazioni, signora… Conosce qualcuno alla capitaneria di porto?»
«Qualcuno? Può dire quasi tutti! Eccetto un paio che vengono da fuori. Anche mio nipote è di servizio lì».
«Grazie signora Olga – dice Kremer con un sorriso compiaciuto – può darsi che abbia bisogno di lui».
Il suo primo contatto con la “Stasi” avvenne all’uscita del negozio di ferramenta in cui Gerd aveva trovato occupazione per pochi spiccioli.
«Salve Gerd. Sono Hans Baumann. Abito proprio di fronte alla tua casa e ti ho visto spesso passare lunghe ore sulla veranda, intento a osservare con attenzione la vita che si svolge nella piazza e nelle strade vicine. Noi abbiamo proprio bisogno di uno come te: serio, di poche parole, riservato, senza amicizie strane e grande osservatore dell’umanità».
«Noi chi? Chi siete voi?»
«Noi siamo lo stato, il popolo. È proprio per il bene nazionale che sei chiamato a svolgere un servizio facile facile che potrà anche renderti piuttosto bene, molto di più del tuo lavoretto nel negozio del signor Schmitt».
«Che dovrei fare?»
«Niente di più di quello che fai abitualmente: osservare. Osservare e riferire. Ti è richiesto solo un periodo di tirocinio che potrai svolgere a Mosca, tutto naturalmente a nostre spese. Lì imparerai anche il russo che potrà sempre esserti utile».
Non era bello neppure da giovane Gerd, non aveva una moglie e neppure una fidanzata. Era troppo riservato e solitario per farsi degli amici e il rapporto con i coetanei era sempre stato un problema, fino dall’adolescenza.
«Dai Gerd, non fare il timido! Vieni con noi stasera. Ti portiamo in un posto dove ci sono bellissime ragazze. Non hai che da scegliere».
«Vieni Gerd. Vedrai che una alla tua altezza la trovi…» Seguiva una risata fragorosa.
«Lasciatelo stare, forse il nostro Gerd ha altri gusti!» Di nuovo una risata sguaiata.
«Oh sì – diceva un altro con voce in falsetto – allora lo chiameremo Gertrud!»
A questo pensa Gerd mentre, al buio della notte, seduto nella veranda della sua casa all’ultimo piano, controlla, con un sofisticato binocolo a infrarossi, i movimenti nel porto di Odessa. É quello il suo nuovo incarico, per il quale lo hanno richiamato “in servizio”. I russi sanno bene che è ancora un uomo fidato e il tramite è stato di nuovo il vecchio Hans Baumann che ora lavora per loro.
«I nostri compagni russi si sentono accerchiati e, piuttosto che lasciare mano libera agli americani e alla NATO qui in Ucraina, sono disposti a fare un’azione di forza. Ci hanno detto che le nazioni occidentali cercheranno di far arrivare aiuti militari imbarcandoli da Costanza fino al porto di Odessa e noi non dobbiamo permetterlo. Oltre che rafforzare l’esercito ucraino, potrebbero anche armare la resistenza che si sta organizzando».
«E io? Che dovrei fare?»
«Quello che hai sempre fatto, Gerd: osservare e riferire».
Aveva cercato una casa con vista sul porto e aveva voluto proprio quella all’ultimo piano. La veranda che si affacciava sul porto era proprio quello che ci voleva e non gli faceva rimpiangere la veranda della casa di Postdam che era stata per anni il suo punto di osservazione.
Quanti ricordi legati a quella veranda! Da lì aveva controllato tutto il piccolo mondo che lo circondava, aveva violato le intimità più nascoste dei propri vicini di casa, aveva imparato a prevedere ogni loro gesto, a condividerne le abitudini. Aveva prontamente segnalato con scrupolo ogni azione, ogni atteggiamento o movimento che fosse insolito o sospetto.
Aveva utilizzato il suo ruolo anche per vendicarsi di chi lo aveva sottovalutato e deriso in gioventù. A qualcuno lo scherno a lui rivolto era costato molto caro.
A ogni sua segnalazione seguiva l’arrivo di un’auto con grigi uomini in borghese che se ne andavano poco dopo portandosi via qualcuno. Un qualcuno che talvolta non è più tornato e altre volte è ritornato malconcio, ma tutto questo non lo riguardava, non era sua la responsabilità. Gerd doveva solo osservare e segnalare.
Nella sua carriera aveva contribuito anche alla cattura di alcune spie dell’occidente e i più fortunati di loro erano stati scambiati al Glienicker Brücke o, come veniva chiamato, il ponte delle spie. Gli altri forse avevano fatto una brutta fine, ma non era lui che doveva occuparsi di questo.
Le prime volte aveva avuto perfino un timido accenno di rimorso ma era passato in fretta. “Vedi Gerd? – diceva a se stesso – aveva ragione tuo padre: con il tempo si fa l’abitudine a tutto, anche ai rimorsi”.
Se di giorno tutto era più facile, la notte, irrazionale e impietosa, lo tormentava. Aveva perfino paura ad addormentarsi perché era proprio nel momento del sonno più profondo che appariva l’immagine minacciosa e terribile di Klaus Eisaugen.
Negli incubi notturni non aveva mai avuto alcun contatto fisico, nessun dialogo con Eisaugen. Gli appariva soltanto quel volto semi-decomposto, con quel ghigno che esprimeva scherno e disprezzo, ma soprattutto lo impressionavano i suoi occhi freddi, lo sguardo minaccioso e penetrante. Gerd si sentiva mancare il fiato, battere il cuore all’impazzata e si svegliava gridando, in un lago di sudore.
Nella veranda di Odessa, come in quella di Postdam, si sente forte, potente come un dio greco. Osserva dall’alto quella piccola umanità che si affanna e lui, con il potere di cui dispone, sa che può decidere dei loro destini. La veranda è il suo Olimpo, il suo riscatto.
A Odessa, come a Postdam, Eisaugen viene a trovarlo quasi ogni notte, cosi Gerd ha deciso che non dormirà più. Resterà sveglio, seduto in veranda, nel buio, a scrutare il mare e i movimenti al porto.
Un tocco leggero alla porta.
Gerd non riceve mai nessuno. Soltanto un uomo di Baumann di cui non conosce nemmeno il nome e che ogni tanto si ferma per sapere se ha visto o saputo qualcosa.
Gerd apre la porta: davanti a lui Klaus Eisaugen. Non l’aveva mai visto così da vicino nei suoi sogni. Il volto non ha colori, solo sfumature di grigio, proprio come in quella vecchia foto.
«Vattene, maledetto!» gli grida con voce strozzata, in preda al terrore. Richiude con violenza e si ferma, spalle al legno della porta, cercando di riordinare le idee. Dopo qualche minuto si decide a guardare dallo spioncino: nessuno. “Se n’è andato”, pensa. “Oppure l’ho immaginato ancora una volta. Lui esiste solo nella mia mente”. Mette il paletto alla porta e si dirige di nuovo verso il suo rifugio, la veranda.
Una nota figura, di spalle, siede sulla sua poltroncina, come intento a osservare il porto, ma quel dolore improvviso al petto non gli dà nemmeno il tempo di gridare, di chiedere aiuto.
L’anziano Commissario Oleg Pashchenko osserva con cura la sala, cercando di riordinare le idee, mentre il medico legale e due addetti della polizia scientifica fanno gli ultimi rilievi attorno al corpo di Gerd Kremer che giace supino sul pavimento.
«Dunque, dottore?»
«Il decesso è dovuto certamente a un infarto. Non ho alcun dubbio in proposito. Potrebbe essere uno dei casi più semplici nella mia carriera».
«Avrebbe potuto esserlo anche per me, dottore: porta sprangata dall’interno, così come tutte le finestre e i vetri della veranda, decesso per causa naturale e caso archiviato in due minuti».
«Già, Commissario, ma quelli? Come li spieghiamo?» dice il medico indicando uno scaffale della libreria su cui due bulbi oculari puntano minacciosi verso le orbite vuote di Gerd.