«La Sicilia è terra di arsure, lutti e visioni, propizia agli spaventi di mezzogiorno e di mezzanotte» (Gesualdo Bufalino)
A Marrabbecca
(Sarà un fiore)
È una calda mattina d’ottobre e Margherita sta ripulendo la veranda della casa in cui abita con Antonio e il figlio Carlo. È sola e canticchia, felice per la decisione presa. Si cambia, finalmente.
Ode un rumore provenire dal vecchio pozzo, ormai inutilizzato, e vi si avvicina sporgendosi appena. Sente qualcosa stringerle il collo, non riesce a respirare. Soffoca.
Qualsiasi cosa sia, stringe forte, sempre di più.
Cade a terra senza vita, Margherita, così felice solo un attimo prima.
E senza nessuna pietà, un’ascia inizia ad abbattersi sul suo corpo.
Antonio è in fondo al vigneto, sta verificando alcune piante quando vede un fuoristrada avvicinarsi.
Lo riconosce e gli va incontro.
S’abbassa il finestrino e l’uomo alla guida parla, con voce rauca; «To’, io t’u rissi, t’avvisai, vi faccio stare bene e senza problemi, ma tu nunn'a sgarrari, picchi se sgarri passa a Marrabbecca.»
Antonio sbianca e l’altro gli porge una scatola da scarpe: «E a Marrabecca passò.»
Chiude il finestrino e riparte lasciandolo tremante con l’oggetto in mano.
Apre la scatola e trova una mano.
Di Margherita, sua moglie.
La scatola cade per terra e l’uomo corre urlando verso casa.
La vede, è appesa sopra il pozzo ma solo per il tronco, braccia e gambe mozzate sono sparse intorno, la testa piegata in modo innaturale, un taglio lungo il collo che quasi la stacca dal busto.
Colpa sua, lo sa, non doveva cedere. Sopprime a forza l’urlo che vuole uscire.
È disperato ma deve farsi forza, bisogna far sparire tutto prima che Carlo torni da scuola e comincia a darsi da fare pur non smettendo di piangere.
* * *
La prima volta che vidi un campo di zafferano avevo quindici anni.
Nell’ottobre del 1999, lo ricordo bene perché mamma era scomparsa da un anno esatto, mi recai con mio padre da zia Lina e zio Pino, nella zona di Piazza Armerina. Era la prima volta che mi ci portava, so che doveva parlare con lo zio e infatti si appartò, mentre io mi fermai con la zia, sorella di mia madre, aspettando il suo ritorno.
Pareva triste, forse per via della sorella scomparsa, ma fece di tutto per mettermi a mio agio e mi portò a vedere la coltivazione dietro casa.
Rimasi incantato.
Una sfilza di fiori violetti che bucavano il terreno con forza e tanto colore e pareva non avere fine. Sembravano voler dire “siamo belli ma non solo”.
«Che fiori sono?»
«È zafferano» rispose sorridendo, «una spezia.»
«So cos’è lo zafferano, ma non ne avevo mai visto la pianta. Credevo venisse dall’estero. Ne posso prendere una piantina?»
Si rabbuiò: «Nun u sacciu, c’ha addumannari a to ziu Pino.»
Fui sorpreso dalla reazione, comunque lui arrivò poco dopo e gli rivolsi la richiesta. Mi squadrò poi fece cenno di seguirlo. Andammo nel campo, tolse due piantine dal terreno e me le porse: «Te cca, picciotto, trattale bene e ricorda che sarà un fiore viola, ma quel che conta è la parte rossa, rossa come il sangue.»
Non compresi il senso della frase ma ero felice per le piantine e sorrisi.
Durante il viaggio di ritorno pensai a zia Lina e venni colto dalla nostalgia di mia madre.
«Papà» dissi «non sé più saputo nulla di mamma, vero?»
Non rispose subito, continuò a guidare per un paio di minuti senza mai guardarmi, poi: «S’a pigghiò a Marrabbecca, Carlo, nun m’addumannare cchiu.»
Scossi il capo. Mio padre che credeva a leggende simili mi lasciava perplesso ma mi fu chiaro che non dovevo fare altre domande.
Una volta giunti, portai le due piantine nella veranda dietro casa, dalla quale si vedeva tutto il nostro vigneto, e le misi in due vasetti di coccio riproponendomi di studiare ogni cosa al riguardo dello zafferano. Un giorno lo avrei coltivato, ne ero sicuro.
Completai gli studi e presi il diploma in agraria, come mi ero prefissato. Mio padre voleva proseguissi per divenire enologo, ma a me non interessava molto il Nero d’Avola o il Duca di Salaparuta o il Corvo, io volevo occuparmi dell’oro rosso, lo zafferano.
In ogni caso, negli anni successivi portai avanti con lui il lavoro dei vitigni, il taglio, le vendemmie e la consegna dell’uva alla Cantina di Fulgatore. Ogni volta che chiedevo per che motivo si dovesse portare il raccolto alla Cantina la risposta era la medesima: «Perché così si deve fare.»
Eppure c’erano altri che avrebbero acquistato l’uva, e a prezzo migliore. Qualcosa non quadrava. Inoltre lui continuò ad andare regolarmente da zio Pino, ma non mi prese più con sé.
Nel febbraio del 2010, seduti in veranda dopo aver pranzato, ci godevamo un anticipo di primavera guardando un paesaggio di vigne spoglie, parzialmente nascoste dal vecchio pozzo che stava tra noi e il campo, quando mio padre d’improvviso sbottò: «Ho saputo che ti vedi con Maria Grazia Pizzolato, la figlia del barista. È una cosa seria?»
Arrossii e provai a balbettare una risposta ma non uscì niente di sensato e lui scoppiò in una risata che non udivo da anni.
«Tranquillo, Carlo, ci siamo passati tutti. Pure io con tua madre ero talmente ‘nnamurato da un sapiri socco rire…»
Presi la palla al balzo: «Ecco, dimmi di mamma, ora. Siamo nel ventunesimo secolo e non possiamo credere a certe storie. Chi fine ha fatto? Lo sai, vero? Si capisce che lo sai.»
Rimase di stucco, non se l’aspettava: «Figlio mio, certe volte la leggenda diventa reale, certe altre la facciamo diventare reale noi. Un giorno capirai cosa voglio dire e sono sicuro che farai come me.» Non aggiunse altro e tornò a guardare il vigneto.
«Pa’, perché non proviamo a dare una svolta? Le piantine di zafferano sono quasi venti, ormai, interriamole e vediamo se il terreno è adatto. Non c’è bisogno di togliere le vigne, le mettiamo vicino al primo filare.»
Qualche attimo di silenzio mi fece credere a una risposta negativa, poi rispose: «Va bene, te lo devo. Domattina le piantiamo ma spero che a Marrabbecca non passi ancora di qua.»
Alzò il viso e mi accorsi che qualche lacrima lo rigava. La mia gioia iniziale venne pertanto fatta a pezzi ma non aggiunsi altro. Ero contento comunque per il sì strappatogli.
Il mattino dopo facemmo quanto deciso.
Mio padre pareva triste e dopo tre giorni scomparve.
All’inizio non mi preoccupai, pensando fosse andato da zio Pino, ma non vedendolo rientrare la sera pensai al peggio.
Il giorno successivo mi rivolsi ai carabinieri e dopo una settimana di inutili ricerche capii che aveva fatto la fine di mia madre. O qualcosa di simile. A Marrabbecca era tornata. Perché, maledizione, perché?
Per superare l’orribile momento Maria Grazia mi fu di grande aiuto. Venne a vivere da me e mi diede una grossa mano a risollevarmi restandomi accanto. Decidemmo insieme di togliere tutte le vigne e piantare zafferano; anche a lei piacevano le piantine viola e i pistilli rossi. Rossi come il sangue, aveva detto lo zio.
Mettemmo a dimora duemila piante sostituendo uno per volta i filari di Nero d’Avola.
Poi, un mattino, mentre cominciavo a togliere le poche vigne rimaste, trovai un braccio tra le ultime due file di fiori. Dissanguato, incartapecorito.
Non so per che motivo lo pensai, visto che era irriconoscibile, ma ero sicuro fosse di mio padre, cosa che venne poi confermata da esami successivi.
A questo punto, però, i carabinieri tenevano d’occhio pure me, pensando chissà cosa, visto anche che avevo tolto il vigneto che mio padre curava, e tutto peggiorò quando trovarono un altro braccio nel campo dietro casa.
Chiesi e ottenni di restare in caserma un paio di notti, mentre Maria Grazia tornava dai genitori, e la cosa funzionò: al secondo giorno vennero recuperate le due gambe in mezzo alle piante di zafferano. Ero scagionato, a meno che ci fosse un complice, ma mi diedero fiducia e mi lasciarono tornare a casa.
Il mattino successivo andai in veranda ed ebbi una sorpresa orribile: la testa di mio padre con in bocca una pianta di zafferano.
Urlai a dismisura la rabbia e il dolore che mi pervadevano, poi giunsero i carabinieri, Maria Grazia, zio Pino.
Zio Pino… pareva sogghignasse, pur mostrandosi dispiaciuto.
Dopo il funerale ebbi un periodo di crisi tremendo e solo Maria Grazia mi tolse dal torpore.
Tornò a vivere con me e non so per quale motivo insisteva per fare l’amore nella veranda, quasi all’aperto. Dolce, cara.
In realtà un motivo forse c’era, voleva esorcizzare quanto avevo vissuto ultimamente, ma non lo comprendevo, non allora.
Un pomeriggio, dopo aver fatto l’amore, seduti a osservare la piantagione di zafferano, mi alzai di scatto.
«Che c’è, Carlo?»
«C’è qualcuno in fondo al campo. Pare una donna.»
Sbiancò: «A Marrabbecca…»
La guardai: «No, pure tu ci credi… non è possibile. Vado a vedere.»
«Non andarci, Carlo, si porta puru a tia, non andare.»
Ero arrabbiato con tutti, anche con lei, e partii verso la coltivazione, deciso a scoprire chi fosse stato a passare da lì.
Camminando tra le piantine scoprii cose che il giorno prima non c’erano: dita umane.
Una qua, una là, quasi dovessero segnare un confine o indicare un percorso. Sbalordito, provai a seguirle e arrivai alla fine del campo senza capire il nesso di tutto questo.
Poi la vidi, a Marrabbecca, proprio in fondo, dove il mio terreno confinava con quello della Cantina.
Gonna lunga, capo coperto da un foulard o qualcosa che pareva tale, vestito di colore grigio e nero. Che brutta, pensai. E d’altronde doveva fare paura…
Ma in quel momento paura non ne avevo, ero solo arrabbiato e le corsi appresso.
Quando la presi rimasi di stucco: era una persona normale, come me. D’impulso le tolsi il velo dal capo e la sorpresa aumentò: «Zia Lina, chi ci fai cca?»
Quella che credevo a Marrabbecca scoppiò in lacrime: «Un saccio nente, un saccio nente… ziu Pino è, ziu Pino. Vattinni a casa, Carlo, vattinni fino a chi si ‘n tempo.»
Compresi il messaggio e partii di corsa. Maria Grazia era sola.
A una ventina di metri da casa lo vidi. Era nella veranda e teneva un coltello sulla gola della mia compagna. Anche lui mi vide.
«Veni ccà, Carlo, veni ccà. Non la scanno subito, prima t’ha spiegari na picca di rregole.»
Mi avvicinai con calma, col cervello massacrato dalle ultime scoperte e quindi del tutto in tilt, quasi in un universo alternativo.
«Zio Pino… ma perché?»
«Perché? Picchì to' patri nun capìu a lezione, pure se all’inizio pareva di sì.»
«Ammazzasti tu mia madre?»
«Cetto che sì, a fici a pezzi, comu meritava. Idda e assai autri.»
«Ma… ma c’avìa fatto di male? Era sempre qua con noi.»
Sghignazzò. «Aveva convinto to' patri a cambiare acquirente, ci aveva tradito.»
Lo guardai e lui puntò di nuovo il coltello alla gola di Maria Grazia.
«Zio, ma tu chi sei, cosa volevi e che vuoi? Si pozzo sistemo tutto iò.»
«No, troppo tardi, Carlo. L’entroterra trapanese avi i so regole e vuatri avete fatto di testa vostra, ora devi pagare, comu to patri.»
Mi inginocchiai: «Ma che abbiamo fatto di sbagliato? Ho solo seguito i miei pensieri, nient’altro.»
«Appunto, non lo dovevate fare. Avat'a seguire i cumanni, le direttive, quello che ti dicono di fare. A Cantina è ‘na copertura gestita da lor signori e io sugnu addetto al controllo. Nessuno deve sgarrare o viene punito da me. E se io non colpisco vengo punito a mia volta, quindi non posso mancare. Carlo, u zafferano si coltiva nell’ennese, cca ci va u vinu, a vigna. Mi pareva d’essere stato chiaro ma evidentemente sbagghiai.»
Mi si chiarivano parecchie cose, però non comprendevo tanta ferocia e glielo chiesi.
«Carlo» disse, «o voi o io. Tu c'avissi scelto? Haju puru l'onore i difennere.»
«Cetto, l'onore che costò la vita a me matri, me patri e chissà quanti autri chi nun saccio.»
«E mai saprai, visto chi ora tocca a viatri.»
Prese Maria Grazia per i capelli e le tirò la testa in alto, mise il coltello in linea di taglio alla gola e mi disse: «Talía como si fa, ‘un è difficile.»
Mentre mi scagliavo contro di lui lo vidi piegarsi in due, colpito alla schiena, e cadere. Finì fuori dalla veranda, a poca distanza dal pozzo.
Ne approfittai per prendere il coltello, sfuggitogli di mano, e vidi zia Lina saltargli addosso piangendo: «Bastardo, figghiu di buttana, tutta la vita mi mentisti. Tu massacrasti me soro, bastardo, bastardo, bastardo.»
Zio Pino si riprese e la schiaffeggiò violentemente fino a farla cadere, poi s’appoggiò al bordo del pozzo, evidentemente la botta presa era forte, e si volse verso di me: «Si un sugnu io sarà qualcun altro, Carlo, ma verrete eliminati dal giro sempre e comunque, lassa perdere.»
Mi colse l’ira.
«Va bene, zio, sarà qualcun altro, non tu. Tu ora farai a fini chi ti spetta, quella che hai dato a tanti altri che non la meritavano.»
Maria Grazia mi guardava con gli occhioni sbarrati: «No. Carlo, non fare come lui, nun u fare.»
Mio zio sorrise a queste parole, ma un grido acuto e secco colse tutti di sorpresa, un grido che veniva dal pozzo. Mi volsi per capire cosa fosse e si ripeté: «Iiiiiiiiiiiiiih iiiiiiiiiiiiih».
«A Marrabbecca» sussurrò zia Lina.
Un’ombra uscì dal pozzo, coperta da una specie di saio grigio col cappuccio che celava il capo ma non il viso: una donna. Brutta, orribile, ma una donna.
Restammo pietrificati e l’ombra saltò dal bordo in pietra e si mise di fronte a zio Pino, che nel frattempo si era un poco allontanato, sia pure con fatica, guardandolo negli occhi e sibilandogli in faccia: «Iiiiiiiiiiiiiiihh iiiiiiiiiiiihh.»
Gli prese un braccio e glielo staccò di netto.
Lo zio cadde urlando e la donna infierì, staccandogli l’altro e buttandoli entrambi nel pozzo. Passò con la mano sul suo collo e lo sgozzò, poi si volse verso di noi sempre con quel suo verso. Ero convinto fosse la nostra ora e invece lo strano essere, dopo averci osservati per bene, andò al campo di zafferano e prese alcune piantine.
Esterrefatti, restammo a osservare mentre tornava verso di noi.
Venne prima da me. Ero impietrito, mi guardò con i suo occhi grigi poi mi donò una delle piantine. Lo stesso fece con Maria Grazia, mentre alla zia non la diede, scuotendo il capo.
Si avvicinò al corpo di zio Pino, lo squadrò e gli mise una piantina in bocca, sollevò il suo corpo e lo gettò nel pozzo.
«Iiiiiiiiiiiihh iiiiiiiiiiiiiihh.»
Ci scrutò un’ultima volta, mise la piantina rimastale sul bordo del pozzo e vi saltò dentro sibilando.
Le due donne piangevano a dirotto, come giustamente conviene alle femmine qui in Sicilia, ma io non ero da meno, sconvolto da quanto appena accaduto.
A Marrabbecca esisteva, l’avevo vista coi miei occhi.
Sono passati dieci anni, ormai, io coltivo ancora zafferano, zia Lina è morta poco dopo quell’avvenimento e Maria Grazia mi ha lasciato.
Ogni tanto ho la sensazione di vedere qualche ombra in fondo al campo, qualcosa che assomiglia a Marrabbecca, ma è solo un’impressione, come i rumori che salgono dal pozzo. Poi torno a guardare il viola delle piantine e penso al rosso che uscirà a novembre, rosso come il sangue.