
Oltre il giardino
Il cancello appariva velato da ruggine rossastra e le gocce di nebbia scivolavano giù seguendo i disegni floreali che componevano quell’anima di ferro antico.
Un sorriso, leggero nei suoi lineamenti, s’accennava sul mio viso e le mani parevano avere solchi e screpolature degne d’un rigido freddo invernale.
Il mio abbigliamento constava di pochi indumenti semplici in cotone e la verità della mia esistenza
era racchiusa in quel modo di vestire.
Il ferro battuto era il recinto d’una casa diroccata e mal messa, un’antica villa abbandonata al tempo e all’incuria che il tempo stesso porta con sé nel suo scorrere.
Con un movimento semplice della mano sinistra spinsi la maniglia e il cigolare dei cardini svegliò la mia mente dal torpore che mi attanagliava e gli occhi si aprirono su un giardino d’orchidee nere, meravigliose nel loro veleno.
Un bambino giocava con l’inchiostro racchiuso in una boccetta di vetro divertendosi a soffiare alcune gocce posate su un foglio bianco, quel vento artificiale creava sentieri d’intrecci spontanei realizzando forme naturali che erano l’apoteosi d’un dipinto mai dipinto.
Provai ad accennare un saluto a quel piccolo uomo ma passai oltre senza ricevere nessun cenno di risposta.
La villa aveva un ridondante stile barocco e alcuni elementi della facciata lasciavano trasparire un accenno gotico alle altezze architettoniche.
Ogni cosa m’era famigliare e sconosciuta al tempo stesso, segno di accogliente tranquillità e voce rassicurante d’esistenza vissuta.
Ero dentro quel mondo che conoscevo, disorientato e certo nel profondo, e il tappeto di velluto rosso, che dall’ingresso portava alla rampa centrale delle scale, era così vivido nel suo colore e pieno di polvere, anch’essa rossastra nei suoi toni, che tutto apparteneva alla mia visione d’insieme immaginifico.
Un giradischi poggiato sopra un mobile, con le vetrine a forma di fagiolino, permetteva a un disco di inondare l’aria stagnante con una miscellanea di voci sovrapposte dai toni soavemente dolci che sembravano nenie cantate da una madre.
Avevo compiuto quel che dovevo e ora non restava che attendere…
Un essere scese dalle scale nella sua informe fisionomia segnata da un volto diviso in due parti
e da escrescenze virulente che come pustole incurabili formavano la pelle.
Un rantolo senza fiato usciva dalle sue labbra e le labbra erano due come i volti che uno ne formavano in realtà, ma quale realtà?
Rivolgendosi a me, nel suo scendere, mi fece capire che ero atteso da molto.
Chiesi se prima di salire su per le scale fosse possibile lasciare gli occhi sul giardino.
Nessuna risposta e tutte le risposte mi vennero date, allora uscii fuori presi per mano quel bimbo e lentamente mi avviai con lui verso la salita che ci attendeva nel suo rituale.
L’essere era scomparso e, pur voltando lo sguardo ovunque, non riuscivo a trovare la sua sagoma.
Nel prendere il passo, lasciando scricchiolare quei vecchi gradini di legno sotto i miei passi, mi trovai, al termine del percorso, di fronte un grande specchio di rame e in esso potei vedere il mio viso.
L’essere appariva chiaramente attraverso le puntinature brunite del vetro, eppure ero io che mi specchiavo non l’essere.
Estrassi allora dalla mente un coltello a lama doppia intrecciata con due teste di serpente in punta e con un fendente preciso aprii la testa del bambino in due lasciando che una materia biancastra uscisse spontaneamente in un groviglio di schizzi di sangue e carne.
Guardai il bambino morire senza che proferisse alcun lamento, quante volte lo avevo visto finire così…
Il buio giunse dentro la stanza attraverso una finestra chiusa, aprii la porta e oltrepassai il giardino, accostai con delicatezza il cancello di ferro e svanii nella nebbia camminando senza mai voltarmi.
In mano avevo un’orchidea nera.