La vecchia Cadillac nera ruggì lungo Newton Street e si arrestò davanti al civico 12 in un pandemonio di freni e copertoni bruciati.
Peter Edgecombe smontò dal carro funebre e s’incamminò lungo il vialetto della casa unifamiliare dai muri color crema.
«Peter, dove diavolo vai?» domandò la voce dall’interno della cassa di mogano.
Il titolare dell’agenzia di pompe funebri Riposo Glorioso restò con la gamba destra bloccata a mezz’aria, prigioniero di un immaginario blocco di cemento, poi fece perno sulla sinistra e ritornò sui suoi passi.
«Che c’è, eravamo d’accordo, no? È l’ultima notte dell’anno. Solo pochi minuti, mezz’ora massimo. Tranquillo, abbiamo tutto il tempo.»
Peter aveva calcolato che a Julius Loman restavano più o meno dieci ore prima che l’ultima scintilla di vita abbandonasse il suo corpo e si trasformasse in un demone divora anime.
«Peter, non è che posso venire anche io alla festa?» azzardò Julius.
Il becchino sgranò gli occhi, verdi come le sconfinate praterie del Kansas. «Julius, tu sei tecnicamente morto, siamo appena tornati dal tuo funerale. Te l’ho già detto, secondo la legge della Grande Contea del Pacifico, terminata la cerimonia non puoi avere più rapporti con nessuno, tranne che con me. Mi dispiace.»
Si grattò la testa, sperando di non essere stato troppo brusco, ma in passato più di un suo collega aveva detto addio alla licenza per colpa dello scherzetto di un trasmutanimatore. «Hai visto quanta gente c’era a salutarti? Ti volevano tutti bene» disse con pacatezza, cambiando subito discorso.
«Già, bella cerimonia» rispose il morto. «Davvero. Erano tutti tristi. Devo aver lasciato un buon ricordo in ognuno di loro se erano così dispiaciuti. Mia moglie però non era triste… Sorrideva.»
«Mi sa che la memoria a lungo termine ti ha già abbandonato. Vivian sorrideva per via della paresi facciale. Va be’, allora io vado» concluse Peter, battendo due volte la mano sul tettuccio della Cadillac.
«Divertiti» disse Julius in un sospiro, sbattendo in risposta due volte i pugni contro il legno della cassa che lo conteneva.
Appena entrò nella casa, Peter venne inondato da una mistura inebriante di fumo, alcol, sudore e musica.
«Hey, beccamorto del cazzo, ce l’hai fatta a venire» disse Wayne, il suo migliore amico: in una mano teneva una bottiglia di bourbon, nell’altra una sigaretta alla marijuana e con le altre due accarezzava i fianchi di una ragazza dai tratti orientali. Ci aveva sempre saputo fare con le donne, sin dai tempi dell’università.
“Quattro mani sono più divertenti di due” dicevano le compagne di corso che erano state a letto con lui: praticamente tutte. Wayne si era pure fatto stampare la frase sopra un set di magliette dai colori assortiti. Quello comunque era il passato e ora Peter doveva concentrarsi sul presente.
«Ti avevo detto che sarei passato. Lei c’è?»
Wayne indicò col mento la stanza da dove proveniva la musica.
«Sta ballando come una puledra impazzita da più di due ore» disse scuotendo la testa e tirando con avidità dallo spinello.
«Le hai detto di me?»
«Ma che scherzi? Ho tenuto la bocca cucita.»
Peter annuì, poi si passò le mani sudate sui calzoni. Fece per raggiungere la sala da ballo improvvisata nel salotto di Wayne ma esitò, prese da una mano dell’amico la bottiglia di bourbon e tracannò in un fiato una lunga sorsata.
Con la gola e le viscere che ancora gli bruciavano si buttò nella mischia.
Lei era là, in mezzo alla pista, che si dimenava come in preda a una possessione, circondata da un nugolo di pretendenti eccitati. I capelli le vorticavano attorno alla testa in un modo allo stesso tempo naturale e posticcio, come se fossero dotati di una propria coscienza indipendente.
Era talmente bella e vitale che Peter dovette inghiottire un blocco di saliva; l’ultima volta che l’aveva vista era distesa sopra un tavolo di marmo. Il suo lavoro aveva a che fare con la morte, ma quell’immagine gli faceva troppo male, era come strisciare una manciata di sale sopra una ferita pulsante che gettava ancora sangue.
Cercò di distrarsi, provando a indovinare il titolo della canzone che gli stava torturando i timpani, poi lei agganciò il suo sguardo e lui non poté più giocare coi minuti. Si avvicinò, col cuore che martellava fuori tempo sulle note della canzone misteriosa.
«Ciao, Pete» disse la ragazza.
«Ciao, Rina.»
Lei sorrise. Lui non ci riuscì.
«È bello rivederti. Ti stavo aspettando» disse Rina stringendolo e appoggiandogli la testa sul petto.
«Mi stavi aspettando? Come sapevi che mi avresti trovato qui?»
«Non lo sapevo. Ci speravo.»
Peter la strinse a sua volta e affondò il naso nei lunghi capelli viola, lisci come la seta, poi sul collo. Le narici andarono alla ricerca del suo odore di donna, quello che nessun profumo riusciva a coprire, l’odore che aveva ritrovato anche l’ultima volta, addosso a quel corpo freddo e nudo abbandonato sul tavolo dell’obitorio. Annusò, ma l’aroma di Rina non esisteva più, sostituito da un sentore freddo, quasi metallico.
Restarono attaccati l’uno all’altra come due liceali al ballo di fine anno,
la musica solo una scusa per poter riconoscere i propri corpi sotto lo strato dei vestiti. Rimasero sulla pista da ballo per un tempo infinito, come se fossero loro la melodia, come se non esistesse nessuno al di fuori di loro due. Come se non esistesse più il tempo.
«Quando sei tornata in città?»
Rina e Peter avevano lasciato il centro della sala da ballo per trovare un po' più di tranquillità nell’angolo vicino alla finestra.
«Non sono neppure due mesi.» La ragazza fece scorrere le dita attorno al fermacravatta a forma di lapide di Peter. «Carino. Deduco che ti occupi sempre delle stesse cose.»
«Già. Seppellisco cadaveri.»
«Già» ripeté la ragazza, guardandosi le mani.
L’uomo si grattò la nuca, poi sbirciò fuori della finestra. «Sai, ho sentito dire che domani potrebbe nevicare.»
«Davvero? È così bella San Francisco sotto la neve.»
«Già, è splendida.»
«Poi il Golden Gate tutto imbiancato è fantastico.»
«Sì, è davvero bello.»
«Pensa che sulla costa atlantica non nevica mai.»
«Dici sul serio? Che cosa strana.»
Rina prese dal tavolo lì vicino il bicchiere col suo drink e lo buttò giù in un fiato.
«Wow, avevi sete eh?» disse Peter sorridendo.
Lei lo guardò coi suoi grandi occhi neri, occhi che lo facevano sentire nudo, senza difese, senza segreti da custodire.
«Non l’hai ancora accettato, vero?»
Peter guardò quegli occhi grandi, neri e tristi senza sapere cosa rispondere, poi abbassò lo sguardo.
«Mi odi così tanto?» continuò la ragazza.
«No che non ti odio, è solo che…»
«Cosa?»
«Il fatto è che…»
«Cosa?»
«Lo sai. Non sono più sicuro di ciò che sei. Voglio dire, sembri Rina, ma qualcosa mi dice che non sei tu. Sono confuso.»
«Ma che stai dicendo? Guardami, sono io, Rina. La tua Rina.»
Peter rialzò lo sguardo e scosse la testa. Fu allora che la ragazza incorniciò con le mani il viso di Peter e lo baciò sulla bocca. Il contatto con la lingua lo sorprese, con le narici che subito si riattivarono per captare qualche dolce ricordo del passato, senza riuscirci. Ora l’odore che percepiva non aveva più un sentore metallico, bensì qualcosa di chimico, associabile alla plastica.
«Sì, ok, sembri tu» disse Peter ponendo fine a quel bacio, «ma lo sai come la penso sul processo di resurrezione. Non ho cambiato idea, è un procedimento contro natura. E poi è illegale.»
«Qui è illegale, nel Ducato del New Jersey no. Dopo tutti questi anni hai ancora voglia di farmi la morale? Davvero avresti preferito vedermi marcire dentro una bara?»
L’uomo guardò i lineamenti del volto dell’ex fidanzata, irrigiditi dalla rabbia e dalla delusione.
«Avevo solo vent’anni, cazzo. Vent’anni. È naturale morire a vent’anni, secondo te? Cosa avrebbero dovuto fare i miei genitori? Hanno visto una possibilità e l’hanno sfruttata.»
Peter pensò che l’unico modo per ingannare la morte era quello di affidarsi ai ricordi, ma non disse nulla, se lo tenne per sé. Non sapeva cosa fare: le persone attorno a lui ballavano e si divertivano, mentre lui era prigioniero dei dubbi e dell’angoscia. Restarono un po' di tempo a fissarsi, senza dire una parola, poi la musica cessò e le luci si alzarono.
«Buonduemilacentosette» disse Wayne tutto d’un fiato. La canna e la bottiglia di bourbon erano sparite per lasciare spazio a una bottiglia di champagne e a un sigaro cubano. Pure i fianchi della donna che stringeva erano cambiati. «Buon anno, bevete e divertitevi, qua si balla tutta la notte.»
La sala esplose in un turbinio di tappi sugherati, stelle filanti e urla giocose. Rina riempì due bicchieri con lo champagne e ne porse uno a Peter. Un faretto a incasso dalla luce azzurra le inondava il viso facendola apparire un essere di un altro pianeta. Era ancora arrabbiata.
«Auguri, Peter» disse una voce familiare dietro di lui.
«Julius!» esclamò senza neppure girarsi.
Il trasmutanimatore sbadigliò, quindi fece tintinnare il suo bicchiere contro quello dell’impresario delle pompe funebri.
«E tu che ci fai qui?» disse Peter.
«È tardi. La mia dannazione si sta avvicinando.»
Julius gli mostrò l’orologio, quindi sbadigliò di nuovo.
«Cazzo, Julius, restano meno di otto ore. Dobbiamo scappare.»
Peter abbrancò Julius e si diresse all’uscita, Rina però gli boccò il passo.
«Tu non vai da nessuna parte finché non mi spieghi cosa provi per me» disse con voce decisa.
Peter la prese per mano e corse verso la porta. «Non adesso, ho i minuti contati. Ne parliamo in macchina.»
Il carro funebre imboccò a gran velocità l’interstatale 580, direzione sud. Al volante Peter era in preda alla frenesia più totale, impegnato nella sua personalissima lotta contro il tempo.
«Se tengo la media delle 130 miglia orarie dovremmo arrivare prima
della tua trasformazione, Julius.»
«Lo spero vivamente. In caso contrario sappi che mi aspetto un forte sconto sulla tariffa funeraria.»
Peter non rise alla battuta, anzi, rabbrividì. Non voleva neppure prendere in considerazione l’idea di un insuccesso. Come aveva potuto essere così superficiale? Imprecò e colpì con un pugno il tettuccio della Cadillac.
«Oh, ma che hai?» chiese Rina. «Si può sapere dove stiamo andando e perché stai guidando come se avessimo il diavolo attaccato alle chiappe?»
«Perché le cose stanno proprio in questi termini, Rina.»
Peter si voltò a guardarla e si rese conto che la ragazza non afferrava il nocciolo della questione.
«La parola trasmutanimatore ti dice nulla?»
Lei scosse la testa.
«Già, tu sei della zona degli aristocratici ducati atlantici…» disse Peter scuotendo la testa a sua volta. «I trasmutanimatori sono delle creature presenti nei territori del sud ovest su cui grava una maledizione millenaria. In vita sono miti, gioviali, si dedicano ad aiutare gli altri, a dare buoni consigli, ad alleviare le sofferenze di ogni essere che incontrano. Proprio per questa attitudine gli è stato concesso il dono delle ventiquattro ore supplementari, nel corso delle quali possono soddisfare un ultimo desiderio. In questo tempo transitorio i trasmutanimatori sono affidati a un cultore di morte, un becchino, che deve fare in modo che l’ultimo desiderio del morto venga esaurito. In ultimo deve provvedere alla purificazione dell’anima del defunto.»
Peter fece una pausa e si inumidì le labbra secche.
«Se però l’ultima volontà non viene rispettata, al termine delle ventiquattr’ore di transizione il morto si trasforma in un demone sanguinario, pronto a divorare l’anima di qualsiasi creatura incroci la sua strada.»
Rina sgranò gli occhi. «Quindi, se ho capito bene, quell’omino buffo e svitato che viaggia dentro una cassa da morto è un…»
«Trasmutanimatore» concluse Peter al posto della ragazza.
«Ragazzina, guarda che ci sento ancora bene, non mi sono ancora spento del tutto» la rimbrottò Julius.
Un silenzio opprimente, carico di tensione e paura, calò nell’abitacolo, con Peter che guardava alternativamente la strada, l’orologio e Rina, sempre nello stesso ordine, come se stesse dando vita a una sorta di rito propiziatorio. Poi Rina aprì la bocca e spezzò il rituale.
«Abbandoniamolo qui, in mezzo al nulla.»
«Già, splendida idea. Quanto credi che ci impiegherà la milizia delle intercettazioni demoniache a risalire a me? No, abbiamo una sola scelta,
arrivare al Grand Canyon prima dell’alba.»
«Stiamo andando nel Grand Canyon? Ma saranno almeno settecento miglia!»
«Quasi ottocento per la verità, ma è l’ultimo desiderio di Julius.»
Peter deglutì a vuoto e strinse forte il volante. La strada si srotolava davanti a loro come un nastro di seta nera pronto a trasportarli dentro l’oscurità. Guardò l’orologio e con una smorfia spinse sull’acceleratore, portando la velocità a 140 miglia orarie. C’era sempre meno tempo e ancora troppe miglia da percorrere.
Arrivarono al Parco Nazionale del Grand Canyon attorno alle 6.50. Ogni cosa era avvolta nell’oscurità e nel silenzio. Peter scese dalla Cadillac con i muscoli delle braccia e del collo che ululavano come se fossero stati sotto una pressa. Gli bruciavano anche gli occhi, ma non aveva tempo per simili stupidaggini.
«Vieni Rina, aiutami a scaricare la cassa, presto!»
Aprirono il portellone, fecero scivolare la bara sopra un carrello pieghevole in acciaio e raggiunsero il grande spiazzo recintato che dava sullo strapiombo. Rina teneva nella mano destra una torcia per illuminare la strada, Peter una tanica rossa, nella sinistra. Quando aprirono la cassa Julius si tirò su e si passò una mano sugli occhi.
«Come ti senti?» domandò Peter.
«Ho paura.»
Peter annuì. «È normale.» Non riuscì a dire altro per confortarlo; era sin troppo facile essere forti quando non toccava a te.
«Perché sei voluto venire qui, Julius?» chiese Rina, avvicinandosi.
«Come perché, è qui che c’è l’energia del mondo, non la sentite?»
All’orizzonte intanto il nero cominciò a sbiadire al contatto con la luce nascente. Il sole emerse dal nulla e accarezzò tutti i colori della natura addormentata. Un raggio dorato si staccò da un punto lontanissimo e si conficcò tra i capelli di Rina, la corda di un funambolo tesa tra di loro e l’infinito. Le rocce, gli alberi, gli arbusti, ogni cosa si ricolorò di vita. Dalla profondità della gola si alzò il ruggito di una tigre, regina indiscussa di quel mondo fatto di pietra. Una scimmia dal collare azzurro si palesò su uno sperone roccioso a pochi metri da loro, li guardò con sospetto, poi si rintanò in un anfratto tra la boscaglia, spaventata dal grido di un’aquila a due teste.
Julius si riempì per l’ultima volta gli occhi col mondo, fece un cenno con la mano e abbassò le palpebre, godendosi il refolo di vento che s’insinuava tra i due ciuffetti di capelli blu ai lati della testa calva.
Peter vegliò su di lui fino a quando fu certo che si fosse addormentato per l’ultima volta, poi richiuse la cassa e rovesciò la benzina contenuta nella tanica sopra le spoglie di Julius. Quando gettò il fiammifero la
cassa di mogano prese subito fuoco, lanciando una fiammata arancione nel cielo. All’inizio la fiamma andò su dritta, lunga e sottile, quindi si allargò, gonfiandosi, virò sul rosso e una figura prese forma. Il viso era scarno, emaciato, gli occhi piccoli, due fessure, la bocca grande, larga, distorta in un folle sorriso di denti aguzzi. Il cranio era ricoperto da una chioma fluente e frastagliata e da quattro corna, due sulla sommità del capo e due ai lati. Il corpo era tozzo e muscoloso, con le vene degli avambracci che brillavano di lava incandescente. Pure le gambe erano muscolose e i piedi scalzi terminavano con unghie lunghe e ricurve. Il rossore del demone sconfinò nel viola, quindi nel blu, poi l’immagine esplose, frantumandosi in una nuvola indistinta di polvere e fumo.
«Il demone è stato sconfitto» disse il becchino. «Ora Julius può riposare in pace.»
Rina e Peter si abbracciarono. Rimasero stretti l’uno all’altra per parecchio tempo, ad ammirare le fiamme distruggere il legno.
«Hai rischiato di far risvegliare un mostro simile solo per rivedermi?» domandò lei all’improvviso.
Peter abbassò lo sguardo, senza dire nulla. Lei allora lo strinse ancora più forte e lo baciò. Mentre le loro lingue si toccavano, pensò che forse stava incominciando ad abituarsi al suo odore mutevole: ora sapeva di umido, di carne cruda. Quando però le loro labbra si staccarono la domanda uscì dalla sua bocca senza nessun ostacolo.
«Perché non hai più il tuo odore? Non riesco più a ritrovarlo. È scomparso, sostituito da qualcosa che…Non so da che cosa…»
Rina si strinse nelle spalle. «Non lo so, ma per te è così importante? Voglio dire, mi hanno sostituito tutti gli organi, ma se credi nell’anima quella è rimasta uguale.»
Peter guardò gli occhi della ragazza: si stavano riempiendo di lacrime.
«Avevo paura, Pete, e ne ho ancora. Tu non hai paura della morte?»
«Conosci qualcuno che non ne ha?» rispose lui di getto.
«E allora? Non ci puoi passare sopra?»
«Già.»
«Già» lo scimmiottò lei, asciugandosi le lacrime. «Vuoi fare l’amore?»
Peter indicò le fiamme. «Più tardi, aspettiamo che finisca. Abbiamo tutto il tempo del mondo.»
Si sedettero, si presero la mano e restarono a guardare il fuoco perdersi nel vento del Grand Canyon.