La mia mano è fredda.
Guardo il vuoto, nella sala d’attesa deserta, e il vuoto guarda me.
La porta si apre, lenta, ritrovo un respiro che non prendevo da ore. Il chirurgo è giovane, mediorientale; s’avvicina reggendo un pad e fingendo di consultarlo. Quando mi guarda e vede un lemure cereo ha un moto d’umana compassione.
“Ho terminato,” mormora, “Fatto il possibile.”
La mia mano è fredda.
“Voglio,” la voce è come unghie sulla cartavetro, “Vederla.”
Incupisce. “Conservi il ricordo di com’era, non di cosa ne resta.”
Il giallo delle pareti è un inno alla nausea.
“Voglio,” cartavetro, “Vederla.”
Lui annuisce.
M’alzo in un moto privo di vigore, lo seguo alla porta della camera mortuaria.
La stanza è fredda ma io di più.
Callisto giace distesa su un tavolo d’acciaio, sotto un lenzuolo bianco eccetto capo e spalle. È pallida, cianotica, con gli occhi chiusi e un’espressione a metà esatta tra sgomento e dolore. I capelli biondi, lunghi, impalliditi a loro volta come quella parte visibile del tatuaggio sulla spalla. Non riesco a smettere di guardare le suture spesse come lampo che, dal collo, si perdono sotto il velo.
Vago.
Cammino intorno, un passo alla volta. Quella parte di me assuefatta al dolore vorrebbe sollevare il panno per guardare l’orrore che le è toccato in sorte. Il medico fa segno di no.
La mia mente confusa ricrea Callisto da qualche parte dietro la coda dell’occhio, in top bianco e shorts, come sulla spiaggia di Jumeirah.
Urlo, rovescio e maledico, tutto dentro la mia testa: fuori ho solo occhi dai capillari gonfi e non una lacrima che si degni di bagnarli.
Le depongo un bacio sulla fronte. Il gusto acre del preservante è veleno.
Lascio la stanza prima che quella parte di me assuefatta al dolore mi faccia restare lì per sempre. Le condoglianze dell’uomo in camice non lasciano segni sulla mia psiche ovattata.
“Signore,” ascolto tre volte quella parola prima di fermarmi: il chirurgo ha in volto un’ombra diversa, guarda il pad poi me. “Lei ha servito l’Emiro nella Guardia?”
Ricordi feroci. “A Fujairah, assedio dell’aeroporto. Torre 23.”
Annuisce con reverenza. Il suo sguardo è cambiato. “Allora conosco un modo.” Guarda verso la sala mortuaria e il biglietto che ha tolto di tasca. “A Dubai, Torre Alshams, piano 206. Chieda di Rais.”
“Per cosa?”
Negli occhi piccoli, scuri, c’è sicurezza. “Si fidi.”
Non capisco o non voglio capire. Sul biglietto c’è l’effigie di un’onoranze funebri, il Saxaul.
“Trattamento di favore,” scandisce, “Per sua moglie.”
Non sento molto, a livello fisico e mentale.
È così da tempo, da ben prima dell’attentato. Sarà Abu Dhabi, la vita che s’è fatta sempre più difficile. Lo stress post-traumatico. La difficoltà di respirare aria che non sia depurata.
Ho guidato fino a Dubai attraverso quattro tempeste di sabbia in quel caos urlante che è il Trucial.
Continuavo a vederla, Callisto, con la coda dell’occhio: seduta sul sedile passeggero a guardar la sabbia che sferza i vetri blindati.
Non è mai andata via.
Non lo ha fatto dopo la battaglia alla Torre 23, il coma, potevo non farcela. Poteva rifarsi una vita, non l’ha fatto.
La vedo anche ora, da qualche parte appena dietro di me, in ascensore e poi nei lunghi corridoi deserti della Torre Alshams, piano 206, camminarmi dietro senza un suono e svanire ogni volta che mi giro a cercarla.
Il Saxaul sta dietro una doppia porta cesellata, una targhetta d’ottone a indicarne il nome. Non c’è citofono allora busso e attendo; della musica lenta, arcaica, passa sotto la soglia.
Apre un uomo in uniforme nera cerimoniale.
“Cerco,” mormoro, “Rais.”
Lui soppesa le mie parole, annuisce, indica qualcuno seduto a un tavolo. Entro in un salone che fonde stile new-tech di Dubai e classico parigino in un connubio discutibile di colonne tortili, archi gotici e soffitti affrescati.
C’è gente. Uomini e donne, arabi e occidentali, in abiti e costumi diversi, eleganti, sparsi con geometrica cura nel grande spazio della sala: danzano qualcosa che non riconosco, coi passi d’un valzer lento e le movenze d’un foxtrot, sulle note educate d’una musica soffusa.
Rais è un uomo sulla cinquantina in gessato grigio d’alta fattura, dai baffi sottili e i capelli pettinati indietro, folti.
Mi fa sedere al piccolo tavolo. Ha occhi vispi, attenti: i miei sono vitrei e insonni.
“Perché è qui da me oggi?” Ha un ottimo inglese.
“Non lo so.”
Apre le mani al grande salone dalle luci soffuse, alle danze lente, ritmate. “Chi viene da me,” recita e la sua voce è gradevole, “Ha una tecnica di ballo da affinare o un caro da onorare.”
Callisto è un’ombra corta appena oltre il campo visivo.
“Mia moglie.”
“Condoglianze. Com’è accaduto?”
“L’attentato al Madinat. Era lì quando è,” il respiro va e poi torna, “Scoppiato l’ordigno.”
Annuisce composto. “Tutti quei morti. Abu Dhabi non è più sicura neppure nei distretti dorati: esco di rado, ormai, da questa torre. Troppi pazzi ed estremisti là fuori.”
“Stava facendo dello shopping.” Urlo, rovescio e maledico, tutto dentro la mia testa. “Non è giusto.”
“Viviamo in tempi difficili, signor Deydara. Non era alla Torre 23? Durante l’assedio dell’aeroporto.”
Sa il mio nome. Sa della Torre 23. “Dove l’ha sentito?”
“Ascoltare è il mio lavoro. I morti parlano, aveva idea? So di Fujairah, sì. Lei e altri della Guardia avete tenuto la posizione, respinto i ribelli. Reso un grande servigio all’Emirato.”
“Volevo solo,” una vita tranquilla. In questo mondo che sprofonda nel caos e nel dissesto climatico.
“È in riconoscenza dei suoi servigi passati che è stato mandato qui.”
“Seppellire mia moglie. Trattamento di favore, hanno detto.”
“Può seppellirla, se crede, oppure può,” Rais sorride, “Riaverla.”
Fisso il vuoto e lui attende, paziente. “Come nulla fosse accaduto.”
Accenno un riso che è solo un sussulto del petto.
“Riaverla. Viva. Sua.”
“Che significa?”
“Posso riportarla indietro, se lo desidera. Indietro da qualsiasi cosa ci sia dopo di noi, dopo l’esistenza terrena.”
Brivido.
Un germoglio di rabbia fa capolino nel caos della mia mente stordita. “Lei è stata smembrata,” brivido, “Assieme ad altre 166 persone dall’onda d’urto di una bomba sonica. Il suo corpo è stato rimesso insieme alla meglio. Non c’è modo di riportarla anche solo a una forma dignitosa. Se vuole usare il mio dolore per illudermi con assurdità, io…” Il resto muore in un vuoto pleonastico.
Rais, paziente, giunge le mani. “La seppellisca, allora. Le offro un funerale Sublime al prezzo di quello ordinario. Oppure affidi il corpo a me, e io la riporterò da lei. Viva, o quasi. Perfetta. Senza alcun segno di quanto ha patito.”
La testa mi cade, lenta, tra le mani. Respiro senza sentire l’aria nei polmoni.
“E come può farlo?”
“In questo mondo morente ci affanniamo tutti a guardar avanti cercando tecnologiche soluzioni ai problemi della nostra esistenza: guerra, fame, sete, sonno. Solitudine. Dimentichiamo che esiste il passato e ciò che ha da insegnarci.”
“Mi dica,” il tono ora è truce, “Come può fare questa cosa.”
Il suo indice si alza verso l’alto, molto più in alto del soffitto, della torre 206. “Abbia fiducia nelle vecchie religioni della mia e della sua gente.”
Scuoto la testa, ma è solo un moto di tensione. “Quanto vuole in cambio?”
“Ridare la vita ha un prezzo che non si paga in denaro, signor Deydara. Normalmente chiederei una cosa preziosa come la sua lealtà, ma vista la sua condizione, mi vedo costretto a domandare altro.”
“Quale condizione?”
I suoi occhi piccoli si fanno ancora più minuti. “Lei è stato colpito durante l’assedio dell’aeroporto, ricorda?”
Porto una mano al petto nell’eco di quello stesso gesto, quando il proiettile m’è entrato nel costato.
La Torre 23.
“Ricorda il coma, la riabilitazione?”
Il grande vuoto che hanno lasciato. Lo stress, PTSD, gli incubi.
Annuisco. “Perché la lealtà?”
“Sto espandendo i miei interessi, e un giorno mi faranno comodo uomini che sanno usare le armi.”
“Gliela offro la mia lealtà.”
“Oh, ma quella già la possiedo, sa? No, desidero altro da lei.”
“Cosa?”
“Sua moglie, in cambio. Come ospite nella mia sala da ballo, beninteso. So che era molto bella: sarebbe un valore aggiunto.” Accenna alle danze che, in ordine, si snodano e contraggono intorno a noi, nel salone, senza un suono che non sia la musica e le suole di decine di scarpe.
“Che senso ha,” chiedo in un soffio, “Tutto questo?”
“Amo il ballo. Riempio i vuoti della mia esistenza così. La sua decisione?”
Guardo un nulla fatto di figuranti in abiti di lusso. Callisto è una presenza discreta appena dietro la coda dell’occhio.
“Ma sarà come prima? Tutto come prima?”
“In buona misura. Potrebbe non ricordare dettagli del passato recente, ripetere spesso le stesse frasi e apparire atona. Ma è del tutto normale e il tempo migliorerà le cose. Non avrà segni visibili; solo la sentirà più fredda al tocco, perché la temperatura d’un corpo redivivo è più bassa, e il suo cuore batterà con estrema lentezza. Dovrà abituarsi a queste piccole differenze.”
La gola è secca, le mani gelate.
“Che significa? Mi ridarà un surrogato? Non voglio un surrogato, voglio mia moglie.”
“La resurrezione non rende vivi, Lazzaro non lo era. È uno stato a metà tra la morte e la vita, ma assomiglia molto di più a quest’ultima. È ciò che posso offrirle, con l’aiuto di Dio.”
“Sarà come vivere? Mangerà, avrà funzioni vitali?”
“Sarà tutto normale, eccetto quel che le ho descritto.”
Chiudo gli occhi, allucinato, sconvolto. “Accetto.” Il morso alla gola è diventato un nodo stretto.
“La mia agenzia s’occuperà di tutto. Gliela restituiremo entro tre giorni.”
Sorride con garbo.
La mia mano trema mentre abbasso la maniglia della camera da letto e apro la porta.
Callisto è lì.
Lì nella luce del tramonto che filtra dalle veneziane, eretta di fronte al suo guardaroba. Contempla le ante aperte con sguardo assente, indossa una sottoveste bianca.
La chiamo in un soffio: m’osserva con un lento voltare del capo.
La guardo e percorro, senza sosta; i suoi occhi sono fissi, le palpebre immobili.
Non so chi o cosa ho davanti, solo che è identica a lei, la stessa abbronzatura curata, i capelli in ordine, lisci, schiariti in punta. Bella nei suoi 27 anni.
Mi avvicino. Le sfioro una guancia e la mano trema: non ha mai smesso di farlo.
La pelle è liscia come la ricordavo.
“Ehi.”
Le sue iridi sono vitree come le mie.
“Stai bene?”
Annuisce dopo un tempo infinito.
Le depongo un bacio sulla gota, anche le labbra tremano. Le cingo le spalle, il tatuaggio che le colora tutto il braccio. “Hai freddo?”
“No.”
Sorrido, incerto. Ho gli occhi gonfi di pianto che non riesco a buttar fuori.
“Non ricordi cos’è successo?”
Un moto delle sopracciglia come ci pensasse, per breve, scuote appena il capo. “Sono stata…”
“Sei stata via. Per qualche giorno.”
Annuisce a cenni lievi, atona. Guarda l’armadio aperto. Fa per muoversi, vacilla, la sorreggo.
“Siediti.”
L’accompagno a sedere sul letto, il nostro letto. Non so cosa dire, non so nulla.
Se è lei, non è lei. Nulla.
La guardo muovere le dita, sfiorare le lenzuola.
“Cal,” scendo sulle ginocchia, tocco le sue, “Ti ricordi di me, Cal?”
Mi guarda poi accenna un sorriso. “Sì.”
Dio.
Poggio il capo sulle sue cosce nude, magre, brunite, e lì rimango; non c’è più l’odore del preservante, c’è quello della sua pelle abbronzata. Non so cosa credere.
Piango, urlo e ringrazio: tutto nella mia testa.
Le sue mani mi si poggiano sui capelli, li accarezzano.
Devo capire, sapere, essere sicuro. La bacio, in silenzio, coscia, ginocchio, percorro la sua gamba reggendola con cura. Cerco il fiore tatuato sulla caviglia, minuscolo, ed è lì. Bacio con rabbia il suo piede nudo stringendolo contro il petto.
Callisto guarda e non so dire cosa provi. Se ci sia davvero, qui, con me.
“Parlami,” mormoro, “Dimmi qualcosa.”
Accenna un sorriso, la piega curiosa sotto gli zigomi. “Andiamo al mare?”
Rido, senza suono, gli occhi rossi. “Vuoi andare al mare?”
Si stende, lenta, sulle lenzuola, e per un attimo la rivedo a prendere il sole di Jumeirah, sotto la cupola isolante.
Mi sdraio al suo fianco, viso a viso; le accarezzo la schiena, le bacio una mano. Non è fredda, non la sento fredda. Dovrei sentirla tale, non lo è. Stringo e bacio e accarezzo, ma non è fredda al tatto. È tiepida.
Mi sfiora il volto, sorride. “Sei tornato.”
È lei a esserlo, ma non lo dico. La sua immagine cianotica sul tavolo d’acciaio svanisce di fronte alla meraviglia d’averla qui, ora.
Giuro e rigiuro a me stesso che non le dirò mai dell’attentato, la bomba, la sala mortuaria, e Rais, il Saxaul: non dovrà sapere nulla.
La bacio sulle labbra col terrore di sentire un gusto che non sia il suo, invano.
È lei, so che è lei.
“Hai fame?”
Impiega tempo per fare segno di no. Scendo al suo torace, apro la veste, c’è la rosa che ha tatuata sotto il seno.
“Ti amo, Cal,” non sento il suono della mia voce, solo i capezzoli sotto le dita. Le ascolto il petto: ho un vuoto quando non sento battere il cuore e un sorriso amaro quando un singolo rintocco, fioco, si fa strada. Ci vuole un’eternità per sentirne un secondo.
Lei osserva, con occhi che sono i suoi nonostante un velo d’apatia.
Non sento il caldo del tumulto emotivo né il freddo della sua non-vita: le bacio il ventre, l’ombelico, poi più giù, accanto all’elastico delle mutandine nere.
Ravvia i capelli con un altro gesto incerto, porta il dorso della mano alla bocca. Sembra voler piangere ma non trova le lacrime, come me.
Le calo gli slip con dolcezza. Voglio vederla, toccarla, sapere che è ancora lì, nonostante tutto il male passato.
Bacio la vagina glabra e lei inarca per un attimo la schiena. Le sue mani tornano a giocare coi miei capelli.
“Reno…”
Il mio nome nella sua voce flebile è un dono per ogni fibra di me che ha pensato d’arrendersi dopo l’attentato, la sala mortuaria, il suo corpo nel lenzuolo bianco.
“Sono qui, Cal.”
Un cenno lieve d’andarle vicino: ha il sorriso tenue dei tempi migliori. Mi alzo, lento, fino a starle sopra, occhi negli occhi, con ancora tutta l’insurrezione che sento dentro. Il suo petto che s’alza e abbassa, lento, il tondo dei seni, gli occhi socchiusi.
Le sue mani cercano l’orlo della mia maglietta, l’aiuto a levarmela. Sorride.
“Adesso,” mormora, “Adesso è finita?”
“Sì. Avrò cura di te, Cal, lo giuro. Non ti succederà mai più nulla.”
Mi tocca il petto con i palmi, sorride amara, poi piega le labbra in un moto di pianto. “Sono fredda, Reno?”
Brivido. “Non lo sei, no.”
Ha un singhiozzo, le s’inumidisce un occhio. “Neanche tu.”
Non capisco, non voglio capire. Le accarezzo il petto, i fianchi, è tiepida al tatto, non è fredda.
Non lo è.
Esplora il mio corpo con dita snelle, via via più libere dalla rigidità, sfiora le mie gambe coi piedi nudi; sembra piangere ma non ci sono lacrime sulle sue guance. “Non sei più freddo.”
“Cosa dici? È tutto passato, tutto andato, non è successo niente.”
“Io sono morta e tornata, Reno.”
Sento una vena d’orrore e paura scavare dentro l’anima: lei sembra piangere e ridere assieme, senza suono, sfiorandomi il volto. Ha i miei stessi occhi segnati dal dolore e le privazioni. “Ti amo, Reno, ti amo tanto.”
Si alza a sedere, lenta, sofferta, appoggia il volto sul mio, le mani a stringermi con debole vigore.
“Non sei più freddo, non lo sei più…”
Non capisco, non voglio capire. Guardo confuso, stanco.
Lei guida con dolcezza la mia mano sui suoi seni morbidi. “Non lo sono neanch’io.”
“Non lo sei, no.”
“È perché,” piange e ride assieme, senza lacrime né suono, “Adesso abbiamo la stessa temperatura.”
Fisso il vuoto, atono. “Che significa?”
Guida la mia mano contro il mio stesso petto, a sinistra, dove c’è la ferita, il proiettile che m’è entrato nel costato quel maledetto giorno, l’assedio dell’aeroporto, Torre 23. Non è rimasto alcun segno del foro per l’ottima chirurgia.
“Cal, tu non hai idea di cosa ho passato, di cosa ho pensato, di tutto quel che ho provato sapendo che eri…”
Mi carezza le labbra per far cessare il caos, i dervisci di dolore, la tempesta che devasta le pareti della mia anima. Tutto si quieta in un breve, intenso attimo.
È in quel momento, solo allora, che lo sento.
La mano sul petto.
Un singolo, lontano, lontanissimo battito.
Ci vuole un’eternità per sentirne un secondo.
Impossibile.
Urlo, rovescio e maledico: tutto nella mia testa. Cerco un pianto che non possiedo più, i dotti lacrimali secchi.
“Non sei più freddo,” mi stringe in un abbraccio liberatorio, infinito, quello di chi ha assistito un redivivo per anni, senza andarsene, senza rifarsi una vita.
“Lo siamo entrambi, ora.”
Mi bacia con un’eco della foga di tempi migliori, quella che neppure la morte ha portato via.
Scivoliamo insieme tra le lenzuola, le pieghe d’un mondo che corre a lenti passi verso la fine.
Callisto è splendida nel vestito corto, nero, i tacchi alti, i bei capelli pettinati indietro.
Io ho rispolverato la vecchia divisa della Guardia.
Sorride, magnifica, le nostre mani intrecciate.
La musica della sala è soffusa come la luce, così gli affreschi sul soffitto e quell’incrocio di arte new-tech di Dubai e vecchio stile parigino.
Rais osserva seduto al suo banale tavolino; vuole solo questo da noi: un ballo. Lungo, eterno, solo un ballo, per allietare i vuoti della sua esistenza. È il prezzo che gli devo per aver avuto mia moglie indietro.
La mia lealtà non l’ha voluta poiché già la possedeva: Callisto gliel’ha offerta per riportarmi indietro, anni fa, dopo quel proiettile.
Dicono che Rais stia espandendo i suoi interessi, che ambisca a un posto di rilievo nel tempo che verrà, quello dei nuovi conflitti per le risorse, per sovvertire le vecchie egemonie. Che voglia un esercito, uno fatto di morti resuscitati, controllabili, eterni, freddi.
Che ne abbia già raccolti molti, indistinguibili dalle persone normali.
Che ci riesca grazie a quel sapere che è scritto nella Bibbia da un remoto passato. La chiamano necromanzia.
Così danziamo, una danza che non conosco, che ha qualcosa del valzer e qualcosa del foxtrot, persi tra tante altre coppie, tutte diverse, tutte eguali. Tutte fredde ma senza sentirlo.
Insieme, come saremo a lungo, in attesa d’una chiamata alle armi ancora da venire.
Non mi occorre altro.
Bacio le labbra della donna che ho scelto e sceglierei ancora da qui alla fine del mondo.
Una danza macabra, insieme.
Per sempre.
Guardo il vuoto, nella sala d’attesa deserta, e il vuoto guarda me.
La porta si apre, lenta, ritrovo un respiro che non prendevo da ore. Il chirurgo è giovane, mediorientale; s’avvicina reggendo un pad e fingendo di consultarlo. Quando mi guarda e vede un lemure cereo ha un moto d’umana compassione.
“Ho terminato,” mormora, “Fatto il possibile.”
La mia mano è fredda.
“Voglio,” la voce è come unghie sulla cartavetro, “Vederla.”
Incupisce. “Conservi il ricordo di com’era, non di cosa ne resta.”
Il giallo delle pareti è un inno alla nausea.
“Voglio,” cartavetro, “Vederla.”
Lui annuisce.
M’alzo in un moto privo di vigore, lo seguo alla porta della camera mortuaria.
La stanza è fredda ma io di più.
Callisto giace distesa su un tavolo d’acciaio, sotto un lenzuolo bianco eccetto capo e spalle. È pallida, cianotica, con gli occhi chiusi e un’espressione a metà esatta tra sgomento e dolore. I capelli biondi, lunghi, impalliditi a loro volta come quella parte visibile del tatuaggio sulla spalla. Non riesco a smettere di guardare le suture spesse come lampo che, dal collo, si perdono sotto il velo.
Vago.
Cammino intorno, un passo alla volta. Quella parte di me assuefatta al dolore vorrebbe sollevare il panno per guardare l’orrore che le è toccato in sorte. Il medico fa segno di no.
La mia mente confusa ricrea Callisto da qualche parte dietro la coda dell’occhio, in top bianco e shorts, come sulla spiaggia di Jumeirah.
Urlo, rovescio e maledico, tutto dentro la mia testa: fuori ho solo occhi dai capillari gonfi e non una lacrima che si degni di bagnarli.
Le depongo un bacio sulla fronte. Il gusto acre del preservante è veleno.
Lascio la stanza prima che quella parte di me assuefatta al dolore mi faccia restare lì per sempre. Le condoglianze dell’uomo in camice non lasciano segni sulla mia psiche ovattata.
“Signore,” ascolto tre volte quella parola prima di fermarmi: il chirurgo ha in volto un’ombra diversa, guarda il pad poi me. “Lei ha servito l’Emiro nella Guardia?”
Ricordi feroci. “A Fujairah, assedio dell’aeroporto. Torre 23.”
Annuisce con reverenza. Il suo sguardo è cambiato. “Allora conosco un modo.” Guarda verso la sala mortuaria e il biglietto che ha tolto di tasca. “A Dubai, Torre Alshams, piano 206. Chieda di Rais.”
“Per cosa?”
Negli occhi piccoli, scuri, c’è sicurezza. “Si fidi.”
Non capisco o non voglio capire. Sul biglietto c’è l’effigie di un’onoranze funebri, il Saxaul.
“Trattamento di favore,” scandisce, “Per sua moglie.”
*
Non sento molto, a livello fisico e mentale.
È così da tempo, da ben prima dell’attentato. Sarà Abu Dhabi, la vita che s’è fatta sempre più difficile. Lo stress post-traumatico. La difficoltà di respirare aria che non sia depurata.
Ho guidato fino a Dubai attraverso quattro tempeste di sabbia in quel caos urlante che è il Trucial.
Continuavo a vederla, Callisto, con la coda dell’occhio: seduta sul sedile passeggero a guardar la sabbia che sferza i vetri blindati.
Non è mai andata via.
Non lo ha fatto dopo la battaglia alla Torre 23, il coma, potevo non farcela. Poteva rifarsi una vita, non l’ha fatto.
La vedo anche ora, da qualche parte appena dietro di me, in ascensore e poi nei lunghi corridoi deserti della Torre Alshams, piano 206, camminarmi dietro senza un suono e svanire ogni volta che mi giro a cercarla.
Il Saxaul sta dietro una doppia porta cesellata, una targhetta d’ottone a indicarne il nome. Non c’è citofono allora busso e attendo; della musica lenta, arcaica, passa sotto la soglia.
Apre un uomo in uniforme nera cerimoniale.
“Cerco,” mormoro, “Rais.”
Lui soppesa le mie parole, annuisce, indica qualcuno seduto a un tavolo. Entro in un salone che fonde stile new-tech di Dubai e classico parigino in un connubio discutibile di colonne tortili, archi gotici e soffitti affrescati.
C’è gente. Uomini e donne, arabi e occidentali, in abiti e costumi diversi, eleganti, sparsi con geometrica cura nel grande spazio della sala: danzano qualcosa che non riconosco, coi passi d’un valzer lento e le movenze d’un foxtrot, sulle note educate d’una musica soffusa.
Rais è un uomo sulla cinquantina in gessato grigio d’alta fattura, dai baffi sottili e i capelli pettinati indietro, folti.
Mi fa sedere al piccolo tavolo. Ha occhi vispi, attenti: i miei sono vitrei e insonni.
“Perché è qui da me oggi?” Ha un ottimo inglese.
“Non lo so.”
Apre le mani al grande salone dalle luci soffuse, alle danze lente, ritmate. “Chi viene da me,” recita e la sua voce è gradevole, “Ha una tecnica di ballo da affinare o un caro da onorare.”
Callisto è un’ombra corta appena oltre il campo visivo.
“Mia moglie.”
“Condoglianze. Com’è accaduto?”
“L’attentato al Madinat. Era lì quando è,” il respiro va e poi torna, “Scoppiato l’ordigno.”
Annuisce composto. “Tutti quei morti. Abu Dhabi non è più sicura neppure nei distretti dorati: esco di rado, ormai, da questa torre. Troppi pazzi ed estremisti là fuori.”
“Stava facendo dello shopping.” Urlo, rovescio e maledico, tutto dentro la mia testa. “Non è giusto.”
“Viviamo in tempi difficili, signor Deydara. Non era alla Torre 23? Durante l’assedio dell’aeroporto.”
Sa il mio nome. Sa della Torre 23. “Dove l’ha sentito?”
“Ascoltare è il mio lavoro. I morti parlano, aveva idea? So di Fujairah, sì. Lei e altri della Guardia avete tenuto la posizione, respinto i ribelli. Reso un grande servigio all’Emirato.”
“Volevo solo,” una vita tranquilla. In questo mondo che sprofonda nel caos e nel dissesto climatico.
“È in riconoscenza dei suoi servigi passati che è stato mandato qui.”
“Seppellire mia moglie. Trattamento di favore, hanno detto.”
“Può seppellirla, se crede, oppure può,” Rais sorride, “Riaverla.”
Fisso il vuoto e lui attende, paziente. “Come nulla fosse accaduto.”
Accenno un riso che è solo un sussulto del petto.
“Riaverla. Viva. Sua.”
“Che significa?”
“Posso riportarla indietro, se lo desidera. Indietro da qualsiasi cosa ci sia dopo di noi, dopo l’esistenza terrena.”
Brivido.
Un germoglio di rabbia fa capolino nel caos della mia mente stordita. “Lei è stata smembrata,” brivido, “Assieme ad altre 166 persone dall’onda d’urto di una bomba sonica. Il suo corpo è stato rimesso insieme alla meglio. Non c’è modo di riportarla anche solo a una forma dignitosa. Se vuole usare il mio dolore per illudermi con assurdità, io…” Il resto muore in un vuoto pleonastico.
Rais, paziente, giunge le mani. “La seppellisca, allora. Le offro un funerale Sublime al prezzo di quello ordinario. Oppure affidi il corpo a me, e io la riporterò da lei. Viva, o quasi. Perfetta. Senza alcun segno di quanto ha patito.”
La testa mi cade, lenta, tra le mani. Respiro senza sentire l’aria nei polmoni.
“E come può farlo?”
“In questo mondo morente ci affanniamo tutti a guardar avanti cercando tecnologiche soluzioni ai problemi della nostra esistenza: guerra, fame, sete, sonno. Solitudine. Dimentichiamo che esiste il passato e ciò che ha da insegnarci.”
“Mi dica,” il tono ora è truce, “Come può fare questa cosa.”
Il suo indice si alza verso l’alto, molto più in alto del soffitto, della torre 206. “Abbia fiducia nelle vecchie religioni della mia e della sua gente.”
Scuoto la testa, ma è solo un moto di tensione. “Quanto vuole in cambio?”
“Ridare la vita ha un prezzo che non si paga in denaro, signor Deydara. Normalmente chiederei una cosa preziosa come la sua lealtà, ma vista la sua condizione, mi vedo costretto a domandare altro.”
“Quale condizione?”
I suoi occhi piccoli si fanno ancora più minuti. “Lei è stato colpito durante l’assedio dell’aeroporto, ricorda?”
Porto una mano al petto nell’eco di quello stesso gesto, quando il proiettile m’è entrato nel costato.
La Torre 23.
“Ricorda il coma, la riabilitazione?”
Il grande vuoto che hanno lasciato. Lo stress, PTSD, gli incubi.
Annuisco. “Perché la lealtà?”
“Sto espandendo i miei interessi, e un giorno mi faranno comodo uomini che sanno usare le armi.”
“Gliela offro la mia lealtà.”
“Oh, ma quella già la possiedo, sa? No, desidero altro da lei.”
“Cosa?”
“Sua moglie, in cambio. Come ospite nella mia sala da ballo, beninteso. So che era molto bella: sarebbe un valore aggiunto.” Accenna alle danze che, in ordine, si snodano e contraggono intorno a noi, nel salone, senza un suono che non sia la musica e le suole di decine di scarpe.
“Che senso ha,” chiedo in un soffio, “Tutto questo?”
“Amo il ballo. Riempio i vuoti della mia esistenza così. La sua decisione?”
Guardo un nulla fatto di figuranti in abiti di lusso. Callisto è una presenza discreta appena dietro la coda dell’occhio.
“Ma sarà come prima? Tutto come prima?”
“In buona misura. Potrebbe non ricordare dettagli del passato recente, ripetere spesso le stesse frasi e apparire atona. Ma è del tutto normale e il tempo migliorerà le cose. Non avrà segni visibili; solo la sentirà più fredda al tocco, perché la temperatura d’un corpo redivivo è più bassa, e il suo cuore batterà con estrema lentezza. Dovrà abituarsi a queste piccole differenze.”
La gola è secca, le mani gelate.
“Che significa? Mi ridarà un surrogato? Non voglio un surrogato, voglio mia moglie.”
“La resurrezione non rende vivi, Lazzaro non lo era. È uno stato a metà tra la morte e la vita, ma assomiglia molto di più a quest’ultima. È ciò che posso offrirle, con l’aiuto di Dio.”
“Sarà come vivere? Mangerà, avrà funzioni vitali?”
“Sarà tutto normale, eccetto quel che le ho descritto.”
Chiudo gli occhi, allucinato, sconvolto. “Accetto.” Il morso alla gola è diventato un nodo stretto.
“La mia agenzia s’occuperà di tutto. Gliela restituiremo entro tre giorni.”
Sorride con garbo.
*
La mia mano trema mentre abbasso la maniglia della camera da letto e apro la porta.
Callisto è lì.
Lì nella luce del tramonto che filtra dalle veneziane, eretta di fronte al suo guardaroba. Contempla le ante aperte con sguardo assente, indossa una sottoveste bianca.
La chiamo in un soffio: m’osserva con un lento voltare del capo.
La guardo e percorro, senza sosta; i suoi occhi sono fissi, le palpebre immobili.
Non so chi o cosa ho davanti, solo che è identica a lei, la stessa abbronzatura curata, i capelli in ordine, lisci, schiariti in punta. Bella nei suoi 27 anni.
Mi avvicino. Le sfioro una guancia e la mano trema: non ha mai smesso di farlo.
La pelle è liscia come la ricordavo.
“Ehi.”
Le sue iridi sono vitree come le mie.
“Stai bene?”
Annuisce dopo un tempo infinito.
Le depongo un bacio sulla gota, anche le labbra tremano. Le cingo le spalle, il tatuaggio che le colora tutto il braccio. “Hai freddo?”
“No.”
Sorrido, incerto. Ho gli occhi gonfi di pianto che non riesco a buttar fuori.
“Non ricordi cos’è successo?”
Un moto delle sopracciglia come ci pensasse, per breve, scuote appena il capo. “Sono stata…”
“Sei stata via. Per qualche giorno.”
Annuisce a cenni lievi, atona. Guarda l’armadio aperto. Fa per muoversi, vacilla, la sorreggo.
“Siediti.”
L’accompagno a sedere sul letto, il nostro letto. Non so cosa dire, non so nulla.
Se è lei, non è lei. Nulla.
La guardo muovere le dita, sfiorare le lenzuola.
“Cal,” scendo sulle ginocchia, tocco le sue, “Ti ricordi di me, Cal?”
Mi guarda poi accenna un sorriso. “Sì.”
Dio.
Poggio il capo sulle sue cosce nude, magre, brunite, e lì rimango; non c’è più l’odore del preservante, c’è quello della sua pelle abbronzata. Non so cosa credere.
Piango, urlo e ringrazio: tutto nella mia testa.
Le sue mani mi si poggiano sui capelli, li accarezzano.
Devo capire, sapere, essere sicuro. La bacio, in silenzio, coscia, ginocchio, percorro la sua gamba reggendola con cura. Cerco il fiore tatuato sulla caviglia, minuscolo, ed è lì. Bacio con rabbia il suo piede nudo stringendolo contro il petto.
Callisto guarda e non so dire cosa provi. Se ci sia davvero, qui, con me.
“Parlami,” mormoro, “Dimmi qualcosa.”
Accenna un sorriso, la piega curiosa sotto gli zigomi. “Andiamo al mare?”
Rido, senza suono, gli occhi rossi. “Vuoi andare al mare?”
Si stende, lenta, sulle lenzuola, e per un attimo la rivedo a prendere il sole di Jumeirah, sotto la cupola isolante.
Mi sdraio al suo fianco, viso a viso; le accarezzo la schiena, le bacio una mano. Non è fredda, non la sento fredda. Dovrei sentirla tale, non lo è. Stringo e bacio e accarezzo, ma non è fredda al tatto. È tiepida.
Mi sfiora il volto, sorride. “Sei tornato.”
È lei a esserlo, ma non lo dico. La sua immagine cianotica sul tavolo d’acciaio svanisce di fronte alla meraviglia d’averla qui, ora.
Giuro e rigiuro a me stesso che non le dirò mai dell’attentato, la bomba, la sala mortuaria, e Rais, il Saxaul: non dovrà sapere nulla.
La bacio sulle labbra col terrore di sentire un gusto che non sia il suo, invano.
È lei, so che è lei.
“Hai fame?”
Impiega tempo per fare segno di no. Scendo al suo torace, apro la veste, c’è la rosa che ha tatuata sotto il seno.
“Ti amo, Cal,” non sento il suono della mia voce, solo i capezzoli sotto le dita. Le ascolto il petto: ho un vuoto quando non sento battere il cuore e un sorriso amaro quando un singolo rintocco, fioco, si fa strada. Ci vuole un’eternità per sentirne un secondo.
Lei osserva, con occhi che sono i suoi nonostante un velo d’apatia.
Non sento il caldo del tumulto emotivo né il freddo della sua non-vita: le bacio il ventre, l’ombelico, poi più giù, accanto all’elastico delle mutandine nere.
Ravvia i capelli con un altro gesto incerto, porta il dorso della mano alla bocca. Sembra voler piangere ma non trova le lacrime, come me.
Le calo gli slip con dolcezza. Voglio vederla, toccarla, sapere che è ancora lì, nonostante tutto il male passato.
Bacio la vagina glabra e lei inarca per un attimo la schiena. Le sue mani tornano a giocare coi miei capelli.
“Reno…”
Il mio nome nella sua voce flebile è un dono per ogni fibra di me che ha pensato d’arrendersi dopo l’attentato, la sala mortuaria, il suo corpo nel lenzuolo bianco.
“Sono qui, Cal.”
Un cenno lieve d’andarle vicino: ha il sorriso tenue dei tempi migliori. Mi alzo, lento, fino a starle sopra, occhi negli occhi, con ancora tutta l’insurrezione che sento dentro. Il suo petto che s’alza e abbassa, lento, il tondo dei seni, gli occhi socchiusi.
Le sue mani cercano l’orlo della mia maglietta, l’aiuto a levarmela. Sorride.
“Adesso,” mormora, “Adesso è finita?”
“Sì. Avrò cura di te, Cal, lo giuro. Non ti succederà mai più nulla.”
Mi tocca il petto con i palmi, sorride amara, poi piega le labbra in un moto di pianto. “Sono fredda, Reno?”
Brivido. “Non lo sei, no.”
Ha un singhiozzo, le s’inumidisce un occhio. “Neanche tu.”
Non capisco, non voglio capire. Le accarezzo il petto, i fianchi, è tiepida al tatto, non è fredda.
Non lo è.
Esplora il mio corpo con dita snelle, via via più libere dalla rigidità, sfiora le mie gambe coi piedi nudi; sembra piangere ma non ci sono lacrime sulle sue guance. “Non sei più freddo.”
“Cosa dici? È tutto passato, tutto andato, non è successo niente.”
“Io sono morta e tornata, Reno.”
Sento una vena d’orrore e paura scavare dentro l’anima: lei sembra piangere e ridere assieme, senza suono, sfiorandomi il volto. Ha i miei stessi occhi segnati dal dolore e le privazioni. “Ti amo, Reno, ti amo tanto.”
Si alza a sedere, lenta, sofferta, appoggia il volto sul mio, le mani a stringermi con debole vigore.
“Non sei più freddo, non lo sei più…”
Non capisco, non voglio capire. Guardo confuso, stanco.
Lei guida con dolcezza la mia mano sui suoi seni morbidi. “Non lo sono neanch’io.”
“Non lo sei, no.”
“È perché,” piange e ride assieme, senza lacrime né suono, “Adesso abbiamo la stessa temperatura.”
Fisso il vuoto, atono. “Che significa?”
Guida la mia mano contro il mio stesso petto, a sinistra, dove c’è la ferita, il proiettile che m’è entrato nel costato quel maledetto giorno, l’assedio dell’aeroporto, Torre 23. Non è rimasto alcun segno del foro per l’ottima chirurgia.
“Cal, tu non hai idea di cosa ho passato, di cosa ho pensato, di tutto quel che ho provato sapendo che eri…”
Mi carezza le labbra per far cessare il caos, i dervisci di dolore, la tempesta che devasta le pareti della mia anima. Tutto si quieta in un breve, intenso attimo.
È in quel momento, solo allora, che lo sento.
La mano sul petto.
Un singolo, lontano, lontanissimo battito.
Ci vuole un’eternità per sentirne un secondo.
Impossibile.
Urlo, rovescio e maledico: tutto nella mia testa. Cerco un pianto che non possiedo più, i dotti lacrimali secchi.
“Non sei più freddo,” mi stringe in un abbraccio liberatorio, infinito, quello di chi ha assistito un redivivo per anni, senza andarsene, senza rifarsi una vita.
“Lo siamo entrambi, ora.”
Mi bacia con un’eco della foga di tempi migliori, quella che neppure la morte ha portato via.
Scivoliamo insieme tra le lenzuola, le pieghe d’un mondo che corre a lenti passi verso la fine.
*
Callisto è splendida nel vestito corto, nero, i tacchi alti, i bei capelli pettinati indietro.
Io ho rispolverato la vecchia divisa della Guardia.
Sorride, magnifica, le nostre mani intrecciate.
La musica della sala è soffusa come la luce, così gli affreschi sul soffitto e quell’incrocio di arte new-tech di Dubai e vecchio stile parigino.
Rais osserva seduto al suo banale tavolino; vuole solo questo da noi: un ballo. Lungo, eterno, solo un ballo, per allietare i vuoti della sua esistenza. È il prezzo che gli devo per aver avuto mia moglie indietro.
La mia lealtà non l’ha voluta poiché già la possedeva: Callisto gliel’ha offerta per riportarmi indietro, anni fa, dopo quel proiettile.
Dicono che Rais stia espandendo i suoi interessi, che ambisca a un posto di rilievo nel tempo che verrà, quello dei nuovi conflitti per le risorse, per sovvertire le vecchie egemonie. Che voglia un esercito, uno fatto di morti resuscitati, controllabili, eterni, freddi.
Che ne abbia già raccolti molti, indistinguibili dalle persone normali.
Che ci riesca grazie a quel sapere che è scritto nella Bibbia da un remoto passato. La chiamano necromanzia.
Così danziamo, una danza che non conosco, che ha qualcosa del valzer e qualcosa del foxtrot, persi tra tante altre coppie, tutte diverse, tutte eguali. Tutte fredde ma senza sentirlo.
Insieme, come saremo a lungo, in attesa d’una chiamata alle armi ancora da venire.
Non mi occorre altro.
Bacio le labbra della donna che ho scelto e sceglierei ancora da qui alla fine del mondo.
Una danza macabra, insieme.
Per sempre.