La palla dell’ultimo tiro, all’ultimo secondo, dell’ultima partita di campionato rimbalza sul tabellone e si infila senza ripensamenti dentro il canestro.
Dagli spalti l’ovazione è talmente forte che il pallone che copre il campo di basket sembra sollevarsi da terra. È una vittoria troppo importante, un salto di classifica, la promozione dalla serie A2 alla A1.
Sulle gradinate di ferro, un battere impetuoso di piedi dà il tributo finale ai cinque atleti in campo, a quelli in panchina, all’allenatore che continua a saltare, incredulo per il risultato ottenuto.
I giocatori esultano, le carrozzine rovesciate, alcune di lato, altre con le ruote per aria che annaspano a vuoto.
Tutto è più leggero, come i corpi che si abbracciano, finalmente vicini e senza impedimenti metallici. Le mani strette, non intorno a una ruota ma a quelle degli avversari, accompagnati da abbracci lisci di sudore.
Si conoscono quasi tutti, riconoscono la fatica, perché è la stessa, spinta da uguale determinazione e sacrificio.
Mio fratello è un portento. Gioca a basket in carrozzina, è il capitano, lui porta palla.
A volte punta al canestro, solleva il braccio destro aiutandosi con la mano sinistra, prende la mira e tira. Ma il suo ruolo è da regista, scruta le mosse degli avversari, il momento giusto per fare un passaggio. Conosce la potenza delle braccia dei suoi compagni, il tempo che serve a ciascuno per avanzare palleggiando con una mano, la forza di restare sospeso su una ruota per invertire la marcia.
Lui urla, incita, incoraggia. Esulta poco dopo ogni canestro, si spezza i polmoni dopo un punto subito. Capitano del suo piccolo esercito, infonde coraggio dove va scemando.
Ha sempre fatto così, anche con noi. Sono sua sorella e lo so bene.
Non ha l’uso delle gambe per colpa di un vaccino arrivato tardi. Alla fine degli anni cinquanta, l’antipolio Sabin, in alcune zone d’Italia, era ancora sperimentale. L’incertezza di un dottore lo ha colpito, a solo nove mesi, di un disagio, chiamiamolo così, che lo accompagnerà per tutta la vita. Gli arti inferiori sono fragili, non può correre come gli altri bambini, operazioni e fisioterapia, per riuscire almeno a camminare, con l’aiuto di un tutore, un pezzo di ferro legato alla gamba più debole.
Mio padre, al di là della colpa, è convinto che sia un ragazzo lontano dalla normalità, lui è semplicemente speciale. Testa, braccia e cuore sono più sviluppati di quelli dei ragazzi della stessa età. È super, non si piange addosso, il sorriso e l’entusiasmo lo accompagnano in tutte le cose che fa. Almeno in quelle che vedo. Se poi, nel silenzio della sua camera, è triste e si dispera, come tutti, io non lo so e nemmeno i miei genitori. Perché è lui che dà la forza a tutti.
Per mio padre è pronto per affrontare qualsiasi cosa, studiare in scuole pubbliche, dove troverà compagni che, ogni giorno, lo porteranno in spalla sulle scale per raggiungere la classe, al primo piano. Potrebbe fare medicina, se lo vorrà, diventare medico sportivo, il migliore. Saprebbe trovare le parole giuste da dire a un ragazzino di tredici anni che ha una cardiomiopatia ipertrofica e non giocherà mai più a calcio. Un giovane compagno di squadra che ha sbagliato canestro, ma che potrà farne altri aiutando quelli come lui.
Quando ero piccola, non riuscivo a pronunciare il suo nome per intero, troppo lungo, troppe consonanti, una zeta improponibile. Le prime due lettere ripetute, come spesso fanno i bambini e il suo nome è stato Vivi, un suono facile e di buon auspicio.
Perché questo è mio fratello, un continuo invito a vivere, l’augurio categorico a vedere nel mondo la bellezza dell’esistere, in ogni cosa, nonostante tutto.
E questo è per me, anche adesso che dirige un prestigioso reparto di Medicina dello Sport, tiene lezioni universitarie, partecipa a congressi internazionali.
Ovunque porta il sorriso, la testimonianza che si può essere quello che gli eventi volevano impedire che fossimo.
Dagli spalti l’ovazione è talmente forte che il pallone che copre il campo di basket sembra sollevarsi da terra. È una vittoria troppo importante, un salto di classifica, la promozione dalla serie A2 alla A1.
Sulle gradinate di ferro, un battere impetuoso di piedi dà il tributo finale ai cinque atleti in campo, a quelli in panchina, all’allenatore che continua a saltare, incredulo per il risultato ottenuto.
I giocatori esultano, le carrozzine rovesciate, alcune di lato, altre con le ruote per aria che annaspano a vuoto.
Tutto è più leggero, come i corpi che si abbracciano, finalmente vicini e senza impedimenti metallici. Le mani strette, non intorno a una ruota ma a quelle degli avversari, accompagnati da abbracci lisci di sudore.
Si conoscono quasi tutti, riconoscono la fatica, perché è la stessa, spinta da uguale determinazione e sacrificio.
Mio fratello è un portento. Gioca a basket in carrozzina, è il capitano, lui porta palla.
A volte punta al canestro, solleva il braccio destro aiutandosi con la mano sinistra, prende la mira e tira. Ma il suo ruolo è da regista, scruta le mosse degli avversari, il momento giusto per fare un passaggio. Conosce la potenza delle braccia dei suoi compagni, il tempo che serve a ciascuno per avanzare palleggiando con una mano, la forza di restare sospeso su una ruota per invertire la marcia.
Lui urla, incita, incoraggia. Esulta poco dopo ogni canestro, si spezza i polmoni dopo un punto subito. Capitano del suo piccolo esercito, infonde coraggio dove va scemando.
Ha sempre fatto così, anche con noi. Sono sua sorella e lo so bene.
Non ha l’uso delle gambe per colpa di un vaccino arrivato tardi. Alla fine degli anni cinquanta, l’antipolio Sabin, in alcune zone d’Italia, era ancora sperimentale. L’incertezza di un dottore lo ha colpito, a solo nove mesi, di un disagio, chiamiamolo così, che lo accompagnerà per tutta la vita. Gli arti inferiori sono fragili, non può correre come gli altri bambini, operazioni e fisioterapia, per riuscire almeno a camminare, con l’aiuto di un tutore, un pezzo di ferro legato alla gamba più debole.
Mio padre, al di là della colpa, è convinto che sia un ragazzo lontano dalla normalità, lui è semplicemente speciale. Testa, braccia e cuore sono più sviluppati di quelli dei ragazzi della stessa età. È super, non si piange addosso, il sorriso e l’entusiasmo lo accompagnano in tutte le cose che fa. Almeno in quelle che vedo. Se poi, nel silenzio della sua camera, è triste e si dispera, come tutti, io non lo so e nemmeno i miei genitori. Perché è lui che dà la forza a tutti.
Per mio padre è pronto per affrontare qualsiasi cosa, studiare in scuole pubbliche, dove troverà compagni che, ogni giorno, lo porteranno in spalla sulle scale per raggiungere la classe, al primo piano. Potrebbe fare medicina, se lo vorrà, diventare medico sportivo, il migliore. Saprebbe trovare le parole giuste da dire a un ragazzino di tredici anni che ha una cardiomiopatia ipertrofica e non giocherà mai più a calcio. Un giovane compagno di squadra che ha sbagliato canestro, ma che potrà farne altri aiutando quelli come lui.
Quando ero piccola, non riuscivo a pronunciare il suo nome per intero, troppo lungo, troppe consonanti, una zeta improponibile. Le prime due lettere ripetute, come spesso fanno i bambini e il suo nome è stato Vivi, un suono facile e di buon auspicio.
Perché questo è mio fratello, un continuo invito a vivere, l’augurio categorico a vedere nel mondo la bellezza dell’esistere, in ogni cosa, nonostante tutto.
E questo è per me, anche adesso che dirige un prestigioso reparto di Medicina dello Sport, tiene lezioni universitarie, partecipa a congressi internazionali.
Ovunque porta il sorriso, la testimonianza che si può essere quello che gli eventi volevano impedire che fossimo.