Autogrill
Con i calzini, con le ciabatte di pelle, guardo le onde.
Devo evitare di osservare il mare a lungo, per i depressi può essere fatale farlo.
Teresa, nascosta nella sdraio, ha piccoli lampi di vene varicose sulle gambe nude, lisce di crema solare.
Il suo costume, ha perso tutte le foglie, ora è bianco zuccherino come i capelli. Spostando la sabbia con un
piede, trova quella fresca, sotto. Nel compasso affiorano pezzi di vetro levigato, salicornie avariate.
A sessant’anni la promessa più bella che posso fare a Teresa è smettere di invecchiare.
Lei ci ride sopra, e vederla ridere dopo tanta sofferenza mi basta.
Ho capito, dopo la mia vita disordinata, quanto siano importanti i legami famigliari, e Teresa è tutta la mia
famiglia.
L’estate è appena cominciata e fa già molto caldo. Cerco un posto all’ombra, non per me, per la mia Vespa.
Non entro subito nell’Autogrill, bevo una Coca fresca di distributore, e in preda a una crescente tristezza
studio il parcheggio, solo per fare qualcosa.
Non ho nessun motivo importante per essere lì, la ricerca di un lavoro non è un motivo importante.
Migliaia di uomini sono alla ricerca di un lavoro. Io sono solo uno di loro.
La zavorra del caldo e uno stravagante timore non mi fanno avvicinare all’entrata.
Lavoro per far asciugare il sudore sotto le braccia, le tengo appena sollevate sperando in un colpo di
vento.
Intanto la Coca ghiacciata fa il suo mestiere nella mia gola. Butto la lattina vuota nell’incavo di un cestino
spaccato.
Mi chiedo se in quel posto ci possa essere qualcosa di carino oltre alle sgommate delle automobili, al
rumore dei freni dei Tir, all’odore forte di benzina, alle soste dei pellegrini in pullman, ai cestini spaccati.
La foto di Teresa la conservo nel porta oggetti della Vespa, mischiata a buoni sconto carburante, a
cacciaviti, gomme, e sigarette leggere.
Nella foto in cucina, il suo sguardo è ancora amoroso e indulgente. Alle sue spalle si intravede una pila di
piatti da lavare, un documentario di bomboniere dei matrimoni dei nostri amici, e la nostra vita miserabile.
Dopo lo scatto della foto, si è messa a piangere, ricordo bene. Piangeva e mi guardava. Io non riuscivo a
aiutarla. Per questo merito la morte, se c’è giustizia.
IL vecchio bagno dell’autogrill è un seminterrato animato da numeri telefonici scritti sul muro.
Una piccola agenda strampalata, volgare, affascinante, democratica.
In versione composta, con mascherina chirurgica, aspetto di essere ricevuto dalla responsabile.
La sua stanza sta proprio su una gobba di linoleum, accanto ai bagni.
Siedo su un divanetto di plastica del colore della mia camicia, aspetto che un calcio improvviso apra quella
porta. Non mi sono applicato a indagare di che tipo di lavoro si tratta, per ora mi va tutto bene, anche
spazzare per terra. Non sono disperato, ma poco ci manca.
La porta si apre, una donna in tailleur rosso demolisce ogni mio dubbio con un sorriso impostato.
- Scommetto che lei è il signor Pietri?
- Sì, sono io.
- Si accomodi pure.
- Muoio dalla curiosità di sapere perché mi avete convocato, spero per un lavoro, ne ho fatto richiesta.
La donna allunga il braccio destro impreziosito da gioielli finti. Ci salutiamo con i gomiti.
- Gilda, per tutti sono Gilda, signor Pietri, e non muoia proprio adesso che sta per essere assunto,
ha già fatto colazione?
- Ho bevuto un caffè, pure velocemente, in un bar rivale. Faccio finta di ridere.
- Andiamo sopra, questo ufficio è deprimente, - dice, allungandosi la gonna.
Le vetrine , le piastrelle, le sedie rosse in plastica sono identiche a mille altre sedie, ma si respira un’aria
diversa, tutto è lindo e luminoso. Il ricordo della zona dei gabinetti sembra appartenere a un’ altra storia.
- Le piace il suo nuovo posto di lavoro?
- Mi piace questa musica.
- Jeaolus Gay, e la voce di Lennon.
Ho toccato un tasto che non avrei dovuto toccare, i suoi occhi diventano lucidi.
Sorride, mostrando una fessura degli incisivi imbarazzante, che non ne sminuisce affatto la dolcezza.
- Diamoci del tu, qui tutti ci diamo del tu. - Sentiamo spesso parlare di miracoli, ecco consideralo un
miracolo occuparti del settore vendite di questo autogrill.
- Ho quasi cinquanta anni, e nella mia vita è accaduto poco e niente, ora perché accade tutto questo?
- Dorando devi tutto alla fama del tuo bisnonno.
La sua voce è ossequiosa, rassicurante, carezzevole.
- Mio nonno è stramorto tanto tempo fa.
- Tutti gli autogrill d’Italia sono amministrati da Brenda Hayes , nipote cinquantenne, single,
del campione americano Johnny Hayes che nel 1913 vinse la maratona olimpica.
- Quella in cui il tuo celebre bisnonno tagliò per primo il traguardo. – Quando Brenda ha saputo, attraverso
me, che un discendente del campione rivale di suo nonno chiedeva un lavoro ha ordinato di assumerti
immediatamente.
- Ti devo molto, allora.
- Sono la responsabile del personale, faccio solo il mio mestiere. - Sei veloce come tuo nonno? - Dice
maliziosa.
Senza aver compreso la battuta rispondo in modo corretto e professionale.
- Acqua passata, Gilda, acqua passata, ma anch’io ho avuto i miei successi sportivi.
Fuori impazza il rumore dei Tir, una colonna sonora che, ora, non mi dispiace.
- A Teresa prenderà un colpo, vero?
- Come fai a conoscerla?
- So tutto di te, Dorando, pure che dentifricio adoperi.
- Con Teresa è storia finita, - dico balbettando la bugia.
- Come mai non ti credo?
Non le do il tempo di finire la frase, la prendo sottobraccio per convincerla amichevolmente.
Il mio stato di astenia sessuale viene tramortito dal suo profumo.
Si scompone, ma poco, sa stare al gioco, è una donna vissuta.
- Non sembri uno che fa ancora il filo alle ragazze, uno sfacciato, però, sì. Ride.
Gilda decide di mostrarmi tutto l’Autogrill, prima che la situazione ci sfugga di mano con una piega
esagerata.
Devo sforzarmi per tenere il passo dei suoi tacchi alti. Sotto il suo corpicino esile e delicato ci sono
ginocchia e polpacci enormi e vibranti. Sembrano appartenere a un’altra persona.
Mi soffermo sempre a guardare le parti insolite di una donna, e più sono imperfette, più mi conquistano.
Convinto di poter amministrare tutte le auto posteggiate, tutti i clienti al bar, consapevole dell’ingenuità
della gente che compra peluche, caramelle, sigarette, magliette dozzinali, portafortuna, cd musicali, libri da
non leggere, mi rendo conto di poter dominare pure Gilda, se serve a qualcosa.
Si arresta davanti al lungo e spazioso bancone del bar, afferra due cornetti e me ne porge uno, il più
vistoso, con un mezzo inchino. Arrivano due caffè, fumanti nelle tazzine di porcellana.
- Quante ricerche su internet ho fatto per capire chi sei, - ma ne è valsa la pena, Dorando.
- Sono un uomo qualunque, conciato pure male.
- Non mi sembra, in confidenza sei come piace a me un uomo, - vuoi che ti presenti al personale?
- Non dare a tutti la brutta notizia. - No no. Rido.
- Sei proprio un burlone - dice, spolverandomi la mano sporca di zucchero . - Qui c’è bisogno di allegria, è
un brutto momento.
- Questa nipote americana tanto generosa, com’è? - Chiedo.
- La conoscerai, ti ho già detto che vive a Firenze?
- Scusami, sono nel pallone, non ricordo. - Devo rendere la mia testa abitabile, siete tutti gentili, e vi voglio
tutti dentro.
- Pure me?
- Tu soprattutto.
Il barista con uno strofinaccio cancella le impronte dei nostri caffè e del nostro passaggio, ha una divisa
rossa che non nasconde una simpatica faccia da centro sociale.
- Vieni a fumare una sigaretta con noi, Achille, metti il cartello chiuso.
- Se lo viene a sapere la ‘Nana con le narici di drago’, che chiudo il bar, anche per cinque minuti, mi
licenzia.
- Quella sta lontana, ti copro io.
- No, andate, una sigaretta di meno può farmi solo bene, - ma lui non è il campione di corsa che tutti
aspettavamo?
- Indovinato.
- E fuma?
- Sì, oggi fuma.
Achille fa una smorfia brutta. - Mi deludi Pietri. E ride.
Faccio schioccare le giunture delle mie dita e chiedo se sia davvero così orribile la ‘Nana’ americana.
- Perché ci hai già fatto un pensierino? - Replica velenosa, Gilda.
Non riesco a sviluppare una speciale passione estetica per il panorama stradale, ma sto da Dio nel
piccolo monolocale proposto da Gilda, e non ho problemi a raggiungere il mio posto di lavoro, una specie di
container fuori dal blocco principale.
Mangio e dormo gratis, e il mio conto in banca ha abbandonato il colore rosso in virtù di uno stipendio più
che onesto. Soprattutto lì dentro non riesco a spendere un soldo.
I vini, che prima avevano una posizione di vendita puramente simbolica, sono diventati il punto di forza
dell’Autogrill , insieme ai formaggi a latte crudo e ai salumi della zona. Tutto grazie alla qualità delle mie
scelte e alla mia perfetta valorizzazione del territorio.
Non riesco più a limitare le richieste pubblicitarie dei somellier legati a varie aziende vinicole. L’Autogrill è
diventato prezioso per tutti.
Passo quasi tutte le sere con la tenerezza di Gilda, nella mia piccola abitazione. Non servono grandi spazi.
L’ho arricchita con i quadri dipinti. Gilda dice che io sono la versione maschile di
Frida Kalo, il mio stile è forte e approssimativo come il suo, e non dipingo sogni, dipingo realtà.
Io credo che non ci sia alcun settore della natura umana più noioso delle mie tele, eppure mi tengono
compagnia, a volte mi viene voglia di aggredirle, di prenderle a pugni , e penso che sarebbe
meglio passare la notte da solo che con dipinti che ricordano giorni tristi, colori tristi.
Lo spirito artistico, in un container, non galleggia, affoga.
Quando sono solo, dimentico di cenare, bevo succhi di frutta e mangio merendine.
Fumo qualche sigaretta. Scalzo, scrivo nella stanza scura e morta, pensieri scuri e morti.
Un martedì qualunque, Gilda, rossa come una casa colonica, mi avvisa che nel pomeriggio sarebbe
arrivata la ‘Nana’ americana.
Brenda Hayes, incurante del non finito pericolo virale, mi abbraccia senza mascherina.
- Complimenti Dorando per la tua forma fisica, e per la bontà del tuo lavoro. - Sembra che tu non abbia
fatto altro nella vita che triplicare vendite.
Molto diversa da come l’avevo immaginata, e da come l’avevano raccontata, mi chiede:
- Ti alleni ancora, vero? - Voglio diventare brava nella corsa come te, ma niente sfide.
- Durante la pandemia la corsa è diventata il mestiere degli idioti, di chi non riesce a star fermo per
problemi suoi, ma se vuoi ti mostrerò il mio training giornaliero.
- Solo quello?
- Mi domando come fa una donna giovane come te a avere tutta la responsabilità del tuo lavoro, io
perderei i sensi.
- Sono solo l’amministratrice delegata di Autogrill, nulla di divino.
- A me piacerebbe portarti in un posto dove non si mangia e non si beve caffè.
- Nel tuo letto?
Resto senza parole e senza fiato per un minuto. Ovviamente non intendevo quello.
Gilda, fuori della stanza, sta seduta con le gambe accavallate, per niente sofferente.
Uscendo, la ‘Nana’ le urla uno scherzoso: ‘Se si fa crescere i baffoni è identico a suo nonno’.
Passano i mesi, Brenda mi confessa di non essersi mai sentita così giovane, sono un immaturo che
allontana tutti i suoi pensieri tristi.
Però comincia a punzecchiarmi con arrivi improvvisi, e mi bacia davanti al personale.
L’uscita dall’Europa affossa di nuovo l’economia nazionale e cominciamo a essere tutti preoccupati.
La gente riprende a non circolare, si dimentica di fare acquisti. Fioccano i licenziamenti.
Mi tengo lontano dalle riunioni sindacali. Le riunioni sono troppo brutali, non hanno nulla di
ragionevole. Risultato? Ne escono tutti più avviliti.
L’Autogrill sembra un castello sotto assedio. Nessuno entra e nessuno esce sorridendo.
Passo sempre più tempo nel mio monolocale, non sopporto gli sguardi dei ragazzi del bar che mi vedono
come uno che ha la fortuna di essere al sicuro per la simpatia, e non solo quella, dell’amministratrice.
Dopo una nottata insonne, durante la quale incendiano buona parte dei pneumatici del deposito,
decido di dare le mie dimissioni. Non sopporto apparire come lo sguattero della padrona.
Non sopporto gli sguardi diventati sgradevoli. Preferisco licenziarmi.
Approfitto del buonumore di Gilda per dirglielo.
Alla notizia, la sua faccia, diventa triste e impenetrabile.
Capisco istantaneamente che per lei la mia relazione con Brenda, è stata un supplizio.
Giusto, ora, il suo disprezzo per me.
Mi alzo alle prime luci del giorno, attraverso il verde delicato del giardino.
Senza esitare metto in moto la Vespa, e mi allontano.
C‘è stato un combattimento che non mi aspettavo, sono distrutto.
Sono tanti anni che mi conosco, sopravviverò. Che vita era? Giorno e notte sopra un’autostrada.
Sono preoccupato, riuscirò a trovare un nuovo lavoro? Sono fuggito come un ladro.
Riconosco l’auto che quasi mi tampona, è la vecchia Wolksvagen di Gilda.
Mi fa segno di fermarmi nella prima piazzola. Ha il solito tailleur, e il trucco spalmato sul volto.
- Sono stata nella tua camera, - hai lasciato tutto lì, - ma sei scemo?
- Mi sono sentito disprezzato.
- Disprezzato da chi? Quelle quattro teste di cavolo? Quelli ce l’hanno con me , tu che c’entri?
Non ha rabbia, la rabbia sta solo sul mio versante, il suo è dolore puro.
Gilda è proprio una bella persona, e lo scopro solo adesso.
- Dai torna indietro, strapperò le tue dimissioni, sistemeremo tutto.
- No Gilda, non torno indietro. Gli abiti verrò a prenderli tra qualche giorno, i miei dipinti puoi tenerli tu,
sei la donna migliore di quel posto.
- Che me ne faccio di essere la migliore? - Che me ne faccio?
L a stringo a me, la sindone del suo volto resta appiccicata sul mio.
- Chiamami, devi avere la liquidazione, e tutto il resto.
Il pianto ha riempito i solchi profondi del suo viso, non so come, ma cercherò di ricompensare
questo affetto che non mi aspettavo così forte, che somiglia più a quello di una parente stretta,
a quello di una madre.
Mentre un volo di cornacchie sega l’orizzonte, e il risucchio di un Tir quasi mi sdraia, la mia Vespa riparte.
Torno nella mia città, dove dovrebbe stare Teresa, ora dobbiamo vedercela tra di noi, sono passati almeno
tre anni senza alcun tipo di comunicazione. Finita una sofferenza ne trovo subito un’ altra.
La chiamo al telefono, le accenno parte della mia storia recente. Voglio il suo punto di vista,
soprattutto per capire se sono stato uno stupido. Non ho detto proprio così.
Dimentico di chiederle se sta bene. Mi racconta che anche il suo lavoro è in bilico, il momento è grave per
tutti. Se sono d’accordo vorrebbe vendere il nostro appartamento e tornare a vivere con la madre che ha
problemi di salute. Ho la sensazione di scivolare su di un piano inclinato, sempre più in basso.
Decidiamo di incontrarci per mettere a punto la vendita. Scuoto la testa con una insoddisfazione che mi fa
male, ho capito che da me non si aspetta altro, oltre la spartizione dell’appartamento.
Devo mettere da parte i sentimenti, ho ancora una piccolissima speranza di poter ricominciare da capo la
mia vita, se mi sbrigo.
Il palazzo in cortina lo riconosco da lontano, anche se ora è più vecchio e più verde.
Le costruzioni vicine, per un’illusione ottica, hanno cominciato a somigliargli.
Mi tranquillizzo, non può succedere nulla di più drammatico di quello che è già successo.
Suono al citofono. Aspetto.
- Ah, sei tu? - Sali, ma l’ascensore è rotto.
- Ancora ce la faccio a fare due piani a piedi.
La sento ridere, la sua voce è rimasta melodiosa e infantile.
Quello che c’è ancora del mio cuore, esplode.
Faccio schifo, ma le voglio bene, molto bene.
Sta sulla porta.
Dal cortile arriva il profumo della corteccia dei pini.
Affonda il suo sguardo nel mio.
Ha ancora un volto luminoso e onesto.
- Entra, - dice.
Con i calzini, con le ciabatte di pelle, guardo le onde.
Devo evitare di osservare il mare a lungo, per i depressi può essere fatale farlo.
Teresa, nascosta nella sdraio, ha piccoli lampi di vene varicose sulle gambe nude, lisce di crema solare.
Il suo costume, ha perso tutte le foglie, ora è bianco zuccherino come i capelli. Spostando la sabbia con un
piede, trova quella fresca, sotto. Nel compasso affiorano pezzi di vetro levigato, salicornie avariate.
A sessant’anni la promessa più bella che posso fare a Teresa è smettere di invecchiare.
Lei ci ride sopra, e vederla ridere dopo tanta sofferenza mi basta.
Ho capito, dopo la mia vita disordinata, quanto siano importanti i legami famigliari, e Teresa è tutta la mia
famiglia.
L’estate è appena cominciata e fa già molto caldo. Cerco un posto all’ombra, non per me, per la mia Vespa.
Non entro subito nell’Autogrill, bevo una Coca fresca di distributore, e in preda a una crescente tristezza
studio il parcheggio, solo per fare qualcosa.
Non ho nessun motivo importante per essere lì, la ricerca di un lavoro non è un motivo importante.
Migliaia di uomini sono alla ricerca di un lavoro. Io sono solo uno di loro.
La zavorra del caldo e uno stravagante timore non mi fanno avvicinare all’entrata.
Lavoro per far asciugare il sudore sotto le braccia, le tengo appena sollevate sperando in un colpo di
vento.
Intanto la Coca ghiacciata fa il suo mestiere nella mia gola. Butto la lattina vuota nell’incavo di un cestino
spaccato.
Mi chiedo se in quel posto ci possa essere qualcosa di carino oltre alle sgommate delle automobili, al
rumore dei freni dei Tir, all’odore forte di benzina, alle soste dei pellegrini in pullman, ai cestini spaccati.
La foto di Teresa la conservo nel porta oggetti della Vespa, mischiata a buoni sconto carburante, a
cacciaviti, gomme, e sigarette leggere.
Nella foto in cucina, il suo sguardo è ancora amoroso e indulgente. Alle sue spalle si intravede una pila di
piatti da lavare, un documentario di bomboniere dei matrimoni dei nostri amici, e la nostra vita miserabile.
Dopo lo scatto della foto, si è messa a piangere, ricordo bene. Piangeva e mi guardava. Io non riuscivo a
aiutarla. Per questo merito la morte, se c’è giustizia.
IL vecchio bagno dell’autogrill è un seminterrato animato da numeri telefonici scritti sul muro.
Una piccola agenda strampalata, volgare, affascinante, democratica.
In versione composta, con mascherina chirurgica, aspetto di essere ricevuto dalla responsabile.
La sua stanza sta proprio su una gobba di linoleum, accanto ai bagni.
Siedo su un divanetto di plastica del colore della mia camicia, aspetto che un calcio improvviso apra quella
porta. Non mi sono applicato a indagare di che tipo di lavoro si tratta, per ora mi va tutto bene, anche
spazzare per terra. Non sono disperato, ma poco ci manca.
La porta si apre, una donna in tailleur rosso demolisce ogni mio dubbio con un sorriso impostato.
- Scommetto che lei è il signor Pietri?
- Sì, sono io.
- Si accomodi pure.
- Muoio dalla curiosità di sapere perché mi avete convocato, spero per un lavoro, ne ho fatto richiesta.
La donna allunga il braccio destro impreziosito da gioielli finti. Ci salutiamo con i gomiti.
- Gilda, per tutti sono Gilda, signor Pietri, e non muoia proprio adesso che sta per essere assunto,
ha già fatto colazione?
- Ho bevuto un caffè, pure velocemente, in un bar rivale. Faccio finta di ridere.
- Andiamo sopra, questo ufficio è deprimente, - dice, allungandosi la gonna.
Le vetrine , le piastrelle, le sedie rosse in plastica sono identiche a mille altre sedie, ma si respira un’aria
diversa, tutto è lindo e luminoso. Il ricordo della zona dei gabinetti sembra appartenere a un’ altra storia.
- Le piace il suo nuovo posto di lavoro?
- Mi piace questa musica.
- Jeaolus Gay, e la voce di Lennon.
Ho toccato un tasto che non avrei dovuto toccare, i suoi occhi diventano lucidi.
Sorride, mostrando una fessura degli incisivi imbarazzante, che non ne sminuisce affatto la dolcezza.
- Diamoci del tu, qui tutti ci diamo del tu. - Sentiamo spesso parlare di miracoli, ecco consideralo un
miracolo occuparti del settore vendite di questo autogrill.
- Ho quasi cinquanta anni, e nella mia vita è accaduto poco e niente, ora perché accade tutto questo?
- Dorando devi tutto alla fama del tuo bisnonno.
La sua voce è ossequiosa, rassicurante, carezzevole.
- Mio nonno è stramorto tanto tempo fa.
- Tutti gli autogrill d’Italia sono amministrati da Brenda Hayes , nipote cinquantenne, single,
del campione americano Johnny Hayes che nel 1913 vinse la maratona olimpica.
- Quella in cui il tuo celebre bisnonno tagliò per primo il traguardo. – Quando Brenda ha saputo, attraverso
me, che un discendente del campione rivale di suo nonno chiedeva un lavoro ha ordinato di assumerti
immediatamente.
- Ti devo molto, allora.
- Sono la responsabile del personale, faccio solo il mio mestiere. - Sei veloce come tuo nonno? - Dice
maliziosa.
Senza aver compreso la battuta rispondo in modo corretto e professionale.
- Acqua passata, Gilda, acqua passata, ma anch’io ho avuto i miei successi sportivi.
Fuori impazza il rumore dei Tir, una colonna sonora che, ora, non mi dispiace.
- A Teresa prenderà un colpo, vero?
- Come fai a conoscerla?
- So tutto di te, Dorando, pure che dentifricio adoperi.
- Con Teresa è storia finita, - dico balbettando la bugia.
- Come mai non ti credo?
Non le do il tempo di finire la frase, la prendo sottobraccio per convincerla amichevolmente.
Il mio stato di astenia sessuale viene tramortito dal suo profumo.
Si scompone, ma poco, sa stare al gioco, è una donna vissuta.
- Non sembri uno che fa ancora il filo alle ragazze, uno sfacciato, però, sì. Ride.
Gilda decide di mostrarmi tutto l’Autogrill, prima che la situazione ci sfugga di mano con una piega
esagerata.
Devo sforzarmi per tenere il passo dei suoi tacchi alti. Sotto il suo corpicino esile e delicato ci sono
ginocchia e polpacci enormi e vibranti. Sembrano appartenere a un’altra persona.
Mi soffermo sempre a guardare le parti insolite di una donna, e più sono imperfette, più mi conquistano.
Convinto di poter amministrare tutte le auto posteggiate, tutti i clienti al bar, consapevole dell’ingenuità
della gente che compra peluche, caramelle, sigarette, magliette dozzinali, portafortuna, cd musicali, libri da
non leggere, mi rendo conto di poter dominare pure Gilda, se serve a qualcosa.
Si arresta davanti al lungo e spazioso bancone del bar, afferra due cornetti e me ne porge uno, il più
vistoso, con un mezzo inchino. Arrivano due caffè, fumanti nelle tazzine di porcellana.
- Quante ricerche su internet ho fatto per capire chi sei, - ma ne è valsa la pena, Dorando.
- Sono un uomo qualunque, conciato pure male.
- Non mi sembra, in confidenza sei come piace a me un uomo, - vuoi che ti presenti al personale?
- Non dare a tutti la brutta notizia. - No no. Rido.
- Sei proprio un burlone - dice, spolverandomi la mano sporca di zucchero . - Qui c’è bisogno di allegria, è
un brutto momento.
- Questa nipote americana tanto generosa, com’è? - Chiedo.
- La conoscerai, ti ho già detto che vive a Firenze?
- Scusami, sono nel pallone, non ricordo. - Devo rendere la mia testa abitabile, siete tutti gentili, e vi voglio
tutti dentro.
- Pure me?
- Tu soprattutto.
Il barista con uno strofinaccio cancella le impronte dei nostri caffè e del nostro passaggio, ha una divisa
rossa che non nasconde una simpatica faccia da centro sociale.
- Vieni a fumare una sigaretta con noi, Achille, metti il cartello chiuso.
- Se lo viene a sapere la ‘Nana con le narici di drago’, che chiudo il bar, anche per cinque minuti, mi
licenzia.
- Quella sta lontana, ti copro io.
- No, andate, una sigaretta di meno può farmi solo bene, - ma lui non è il campione di corsa che tutti
aspettavamo?
- Indovinato.
- E fuma?
- Sì, oggi fuma.
Achille fa una smorfia brutta. - Mi deludi Pietri. E ride.
Faccio schioccare le giunture delle mie dita e chiedo se sia davvero così orribile la ‘Nana’ americana.
- Perché ci hai già fatto un pensierino? - Replica velenosa, Gilda.
Non riesco a sviluppare una speciale passione estetica per il panorama stradale, ma sto da Dio nel
piccolo monolocale proposto da Gilda, e non ho problemi a raggiungere il mio posto di lavoro, una specie di
container fuori dal blocco principale.
Mangio e dormo gratis, e il mio conto in banca ha abbandonato il colore rosso in virtù di uno stipendio più
che onesto. Soprattutto lì dentro non riesco a spendere un soldo.
I vini, che prima avevano una posizione di vendita puramente simbolica, sono diventati il punto di forza
dell’Autogrill , insieme ai formaggi a latte crudo e ai salumi della zona. Tutto grazie alla qualità delle mie
scelte e alla mia perfetta valorizzazione del territorio.
Non riesco più a limitare le richieste pubblicitarie dei somellier legati a varie aziende vinicole. L’Autogrill è
diventato prezioso per tutti.
Passo quasi tutte le sere con la tenerezza di Gilda, nella mia piccola abitazione. Non servono grandi spazi.
L’ho arricchita con i quadri dipinti. Gilda dice che io sono la versione maschile di
Frida Kalo, il mio stile è forte e approssimativo come il suo, e non dipingo sogni, dipingo realtà.
Io credo che non ci sia alcun settore della natura umana più noioso delle mie tele, eppure mi tengono
compagnia, a volte mi viene voglia di aggredirle, di prenderle a pugni , e penso che sarebbe
meglio passare la notte da solo che con dipinti che ricordano giorni tristi, colori tristi.
Lo spirito artistico, in un container, non galleggia, affoga.
Quando sono solo, dimentico di cenare, bevo succhi di frutta e mangio merendine.
Fumo qualche sigaretta. Scalzo, scrivo nella stanza scura e morta, pensieri scuri e morti.
Un martedì qualunque, Gilda, rossa come una casa colonica, mi avvisa che nel pomeriggio sarebbe
arrivata la ‘Nana’ americana.
Brenda Hayes, incurante del non finito pericolo virale, mi abbraccia senza mascherina.
- Complimenti Dorando per la tua forma fisica, e per la bontà del tuo lavoro. - Sembra che tu non abbia
fatto altro nella vita che triplicare vendite.
Molto diversa da come l’avevo immaginata, e da come l’avevano raccontata, mi chiede:
- Ti alleni ancora, vero? - Voglio diventare brava nella corsa come te, ma niente sfide.
- Durante la pandemia la corsa è diventata il mestiere degli idioti, di chi non riesce a star fermo per
problemi suoi, ma se vuoi ti mostrerò il mio training giornaliero.
- Solo quello?
- Mi domando come fa una donna giovane come te a avere tutta la responsabilità del tuo lavoro, io
perderei i sensi.
- Sono solo l’amministratrice delegata di Autogrill, nulla di divino.
- A me piacerebbe portarti in un posto dove non si mangia e non si beve caffè.
- Nel tuo letto?
Resto senza parole e senza fiato per un minuto. Ovviamente non intendevo quello.
Gilda, fuori della stanza, sta seduta con le gambe accavallate, per niente sofferente.
Uscendo, la ‘Nana’ le urla uno scherzoso: ‘Se si fa crescere i baffoni è identico a suo nonno’.
Passano i mesi, Brenda mi confessa di non essersi mai sentita così giovane, sono un immaturo che
allontana tutti i suoi pensieri tristi.
Però comincia a punzecchiarmi con arrivi improvvisi, e mi bacia davanti al personale.
L’uscita dall’Europa affossa di nuovo l’economia nazionale e cominciamo a essere tutti preoccupati.
La gente riprende a non circolare, si dimentica di fare acquisti. Fioccano i licenziamenti.
Mi tengo lontano dalle riunioni sindacali. Le riunioni sono troppo brutali, non hanno nulla di
ragionevole. Risultato? Ne escono tutti più avviliti.
L’Autogrill sembra un castello sotto assedio. Nessuno entra e nessuno esce sorridendo.
Passo sempre più tempo nel mio monolocale, non sopporto gli sguardi dei ragazzi del bar che mi vedono
come uno che ha la fortuna di essere al sicuro per la simpatia, e non solo quella, dell’amministratrice.
Dopo una nottata insonne, durante la quale incendiano buona parte dei pneumatici del deposito,
decido di dare le mie dimissioni. Non sopporto apparire come lo sguattero della padrona.
Non sopporto gli sguardi diventati sgradevoli. Preferisco licenziarmi.
Approfitto del buonumore di Gilda per dirglielo.
Alla notizia, la sua faccia, diventa triste e impenetrabile.
Capisco istantaneamente che per lei la mia relazione con Brenda, è stata un supplizio.
Giusto, ora, il suo disprezzo per me.
Mi alzo alle prime luci del giorno, attraverso il verde delicato del giardino.
Senza esitare metto in moto la Vespa, e mi allontano.
C‘è stato un combattimento che non mi aspettavo, sono distrutto.
Sono tanti anni che mi conosco, sopravviverò. Che vita era? Giorno e notte sopra un’autostrada.
Sono preoccupato, riuscirò a trovare un nuovo lavoro? Sono fuggito come un ladro.
Riconosco l’auto che quasi mi tampona, è la vecchia Wolksvagen di Gilda.
Mi fa segno di fermarmi nella prima piazzola. Ha il solito tailleur, e il trucco spalmato sul volto.
- Sono stata nella tua camera, - hai lasciato tutto lì, - ma sei scemo?
- Mi sono sentito disprezzato.
- Disprezzato da chi? Quelle quattro teste di cavolo? Quelli ce l’hanno con me , tu che c’entri?
Non ha rabbia, la rabbia sta solo sul mio versante, il suo è dolore puro.
Gilda è proprio una bella persona, e lo scopro solo adesso.
- Dai torna indietro, strapperò le tue dimissioni, sistemeremo tutto.
- No Gilda, non torno indietro. Gli abiti verrò a prenderli tra qualche giorno, i miei dipinti puoi tenerli tu,
sei la donna migliore di quel posto.
- Che me ne faccio di essere la migliore? - Che me ne faccio?
L a stringo a me, la sindone del suo volto resta appiccicata sul mio.
- Chiamami, devi avere la liquidazione, e tutto il resto.
Il pianto ha riempito i solchi profondi del suo viso, non so come, ma cercherò di ricompensare
questo affetto che non mi aspettavo così forte, che somiglia più a quello di una parente stretta,
a quello di una madre.
Mentre un volo di cornacchie sega l’orizzonte, e il risucchio di un Tir quasi mi sdraia, la mia Vespa riparte.
Torno nella mia città, dove dovrebbe stare Teresa, ora dobbiamo vedercela tra di noi, sono passati almeno
tre anni senza alcun tipo di comunicazione. Finita una sofferenza ne trovo subito un’ altra.
La chiamo al telefono, le accenno parte della mia storia recente. Voglio il suo punto di vista,
soprattutto per capire se sono stato uno stupido. Non ho detto proprio così.
Dimentico di chiederle se sta bene. Mi racconta che anche il suo lavoro è in bilico, il momento è grave per
tutti. Se sono d’accordo vorrebbe vendere il nostro appartamento e tornare a vivere con la madre che ha
problemi di salute. Ho la sensazione di scivolare su di un piano inclinato, sempre più in basso.
Decidiamo di incontrarci per mettere a punto la vendita. Scuoto la testa con una insoddisfazione che mi fa
male, ho capito che da me non si aspetta altro, oltre la spartizione dell’appartamento.
Devo mettere da parte i sentimenti, ho ancora una piccolissima speranza di poter ricominciare da capo la
mia vita, se mi sbrigo.
Il palazzo in cortina lo riconosco da lontano, anche se ora è più vecchio e più verde.
Le costruzioni vicine, per un’illusione ottica, hanno cominciato a somigliargli.
Mi tranquillizzo, non può succedere nulla di più drammatico di quello che è già successo.
Suono al citofono. Aspetto.
- Ah, sei tu? - Sali, ma l’ascensore è rotto.
- Ancora ce la faccio a fare due piani a piedi.
La sento ridere, la sua voce è rimasta melodiosa e infantile.
Quello che c’è ancora del mio cuore, esplode.
Faccio schifo, ma le voglio bene, molto bene.
Sta sulla porta.
Dal cortile arriva il profumo della corteccia dei pini.
Affonda il suo sguardo nel mio.
Ha ancora un volto luminoso e onesto.
- Entra, - dice.