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Poemetto del finir d’un maramaldo.
Mi ricorderò dei mortali tuoi
di natal paludoso lupanare dislocati
Simil a orda di inferociti buoi
dal volgar vezzo già condannati.
Oh turpi soliloqui d’alma clandestina
che de l’inferi ‘nvocasti alti pelaghi
ca niun in terra fe repellente intestina
e nel finir dei giorni poscia te vaghi.
Or succhi come dolce acino
l’osso ch’al midollo arriva
e dicendo male nomini sol asino
chi non ha nome nella cruda deriva.
Sì, turpe imago di mellifluo puzzo
in te soggiorna alitato da infimi demoni
e sine causa petita giù fonno fe ruzzo
che diritto alcuno grida ne i polmoni.
E lentula pelle scinne da le carni
ìmputridendosi al contatto de i fochi
ca eterni son e colmi di lingue scarni
penetranti vanno per terga pur fiochi.
E poscia verba scoppiettanti
per intestini e bisogni impellenti
son del cul frasi odorose e mal parlanti
ca rimango mpligliate fra i denti.
A quanto fu sanata male coscienza
in tal individuo amorfo e illuso
che nemmanco potente flautolenza
mette il pensare a nuovo uso.
Poni allora sol figlio d’ostracismo
passo stanco e a mal pena zoppante
strada secca e brulla nel cinismo
e pur senza montatura al suol galoppante.
Chi sie tu dunque di puzzo lercio
in bragatura intinta e gocciolante
dal viso alitoso e guercio
che sputante va come nudo viandante.
Chi potria mai te vezzar di baci
e mulieri proposte fare di sollazzi
che a vederti ognun dice taci
e pur scansa le orme tue di frallazzi.
Vienci allor a pie congiunto
a inferi donato nel trapasso
serem ben soddisfatti del tuo unto
che a tal ingresso metterem grosso masso.
E non far prece d’aver terga salda
al traghettator tuo pel fiume Lete
che di tua esistenza bieca e maramalda
di legger a niun verrà mai sete.
Poemetto del finir d’un maramaldo.
Mi ricorderò dei mortali tuoi
di natal paludoso lupanare dislocati
Simil a orda di inferociti buoi
dal volgar vezzo già condannati.
Oh turpi soliloqui d’alma clandestina
che de l’inferi ‘nvocasti alti pelaghi
ca niun in terra fe repellente intestina
e nel finir dei giorni poscia te vaghi.
Or succhi come dolce acino
l’osso ch’al midollo arriva
e dicendo male nomini sol asino
chi non ha nome nella cruda deriva.
Sì, turpe imago di mellifluo puzzo
in te soggiorna alitato da infimi demoni
e sine causa petita giù fonno fe ruzzo
che diritto alcuno grida ne i polmoni.
E lentula pelle scinne da le carni
ìmputridendosi al contatto de i fochi
ca eterni son e colmi di lingue scarni
penetranti vanno per terga pur fiochi.
E poscia verba scoppiettanti
per intestini e bisogni impellenti
son del cul frasi odorose e mal parlanti
ca rimango mpligliate fra i denti.
A quanto fu sanata male coscienza
in tal individuo amorfo e illuso
che nemmanco potente flautolenza
mette il pensare a nuovo uso.
Poni allora sol figlio d’ostracismo
passo stanco e a mal pena zoppante
strada secca e brulla nel cinismo
e pur senza montatura al suol galoppante.
Chi sie tu dunque di puzzo lercio
in bragatura intinta e gocciolante
dal viso alitoso e guercio
che sputante va come nudo viandante.
Chi potria mai te vezzar di baci
e mulieri proposte fare di sollazzi
che a vederti ognun dice taci
e pur scansa le orme tue di frallazzi.
Vienci allor a pie congiunto
a inferi donato nel trapasso
serem ben soddisfatti del tuo unto
che a tal ingresso metterem grosso masso.
E non far prece d’aver terga salda
al traghettator tuo pel fiume Lete
che di tua esistenza bieca e maramalda
di legger a niun verrà mai sete.